la società dei devianti

martedì 14 ottobre 2014

I manicomi non ci sono più ma i matti sono sempre da legare

Giuseppe Ceretti - Il Sole 24 Ore

Hai voglia di dire che i manicomi non ci sono più, il povero Basaglia si sarà rivoltato un milione di volte nella tomba. Parola di uno psichiatra riluttante, al secolo Piero Cipriano, che ha lavorato in vari dipartimenti di salute mentale e da alcuni anni lavora in una SPDC di Roma. Quattro lettere che stanno per Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, reparti collocati nell'ospedale generale. Qui sono ricoverati gli affetti da mal mentale dopo che nel 1978 la legge 180 ha abolito i manicomi.
Cipriano per età (è nato nel 1968) non ha conosciuto quei campi di concentramento del malato mentale che erano i manicomi, ma conosce assai bene, per lavorarci giorno e notte, gli SPDC : "Mi ricordano una fabbrica" dice e lì per lì pare un grande cambiamento e in positivo. E certo lo è, almeno in apparenza-Ma Cipriano non a caso è riluttante, ovvero, come ci dice il vocabolario, "uno scarsamente disposto a cedere, concedere, acconsentire". 
Piuttosto la sua esperienza lo convince che in quei luoghi sta rinascendo, sotto altre forme, una rinnovata cultura manicomiale. Il malato è una macchina biologica rotta che va aggiustata non con le parole, ma con il farmaco e se il farmaco non basta ci sono le fasce o le terapie elettriche. E le cure tranquille? Nel silenzio costoso di studi privati.
Una convinzione che è maturata dall'esperienza sul campo e si è tradotta in questo diario di reparto dentro "la fabbrica della cura mentale". Cipriano, lo si avverte sin dalle prime righe, è uomo dalla notevole temperatura interiore. A dispetto della conclamata volontà di darsi a più proficue peregrinazioni nel mondo, nel suo lavoro ci mette passione, competenza e sdegno, anche dietro gli apparenti segni di cinismo: "Che ci faccio qui?".

L'incipit del diario ha l'effetto di un pugno nello stomaco ("prendila tienila legala" è l'eloquente titolo di una notte da incubo) seguito dal perfido resoconto del riluttante io narrante alle prese con i colleghi: il sarcastico, la fredda, la disillusa, la suorina, il fatalista, una galleria di personaggi che girano per i reparti in coda al grande timoniere: "Giro finito. Fino al giorno dopo i pazienti ingoieranno pasticche, cibo, nicotina e televisione".
Piero Cipriano ci avverte che in questa fabbrica il dogma della reclusione della follia, con il conseguente abuso dei farmaci, è alimentato dagli interessi di multinazionali che hanno creato schiere di sostenitori pronti a dimostrare ch in Italia i manicomi non sono stati chiusi "grazie ai neurolettici tipici e ora atipici che avrebbero reso più docili i malati". I farmaci, dice Cipriano, spesso "servono a sedare più che il malato l'ansia dello psichiatra".
C'è poi la questione che più d'ogni altra "fa venire il sangue amaro" all'autore: mai nei libri di psichiatria si parla di legare la gente, mai se ne parla, negli anni di specializzazione: "Ma allora - si chiede - perché è una pratica tanto diffusa, che coinvolge l'80% degli SPDC d'Italia? E' una questione di etica e di cultura: altro che reclamare più operatori, occorre cambiar loro la testa".
La testa di Cipriano è ostinata, cocciuta, piena di sogni ma bastano le poche righe del capitolo di una notte al pronto soccorso per capire di che pasta sono fatti questi sogni. Forse il meglio di questa testimonianza è in ciò che non vi abbiamo anticipato, nelle tracce di romanzo, di saggio, di reportage, di manuale di sopravvivenza.
Non a caso Cipriano chiede aiuto alle parole di Goethe: "Ciò che qui ho narrato è realmente accaduto, ma niente è accaduto come qui ho narrato".

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