la società dei devianti

martedì 7 gennaio 2014




 di Gian Piero Fiorillo

Cosa vuol dire fare lo psichiatra oggi, in un servizio ospedaliero romano che assomiglia a moltissimi altri diffusi su tutto il territorio nazionale, per chi non riesce e non vuole rassegnarsi al dominio della psichiatria biologica, securitaria e repressiva? Per chi non accetta che i pazienti vengano regolarmente legati ai letti di contenzione, domati da pesanti chemioterapie, scaricati in cosiddette cliniche e comunità le cui prassi terapeutiche e relazionali ricordano in maniera inquietante quei manicomi che, aboliti per legge, continuano tuttavia ad esistere sotto forme e con nomi diversi?
Cosa vuol dire farlo, lo psichiatra, e dichiararsi tale con ostinazione, pur nella lucida consapevolezza di tutte le contraddizioni che questa professione, situata sul rischioso confine fra medicina e controllo sociale, comporta? Cosa vuol dire scrivere in cartella diagnosi sulla cui consistenza concettuale si nutrono parecchi dubbi, prescrivere farmaci del cui funzionamento si conosce pochissimo e se ne può avere un’idea solo a posteriori, in base agli effetti? O cercare un rapporto umano, un colloquio, con un paziente che si è costretti a lasciare legato per evitare l’esplosione delle dinamiche del reparto, delle quali il poveretto non ha alcuna responsabilità?
Prova a dirlo, utilizzando prevalentemente il registro narrativo, Piero Cipriano nella Fabbrica della cura mentale, diario di uno psichiatra riluttante (Elèuthera 2013), e riesce nell’intento di dare un quadro vivo non solo della sua professione, ma del mondo che ruota intorno alla “malattia mentale”, come oggi viene etichettata qualsiasi espressione di impaccio esistenziale. Fin dal titolo questo libro necessario si colloca nella tradizione detta basagliana, ma senza accontentarsi di ripetere un formulario, piuttosto sottoponendola a un serrato confronto con la realtà.
L’anno che sta per concludersi potrebbe rivelarsi un anno importante per la coscienza critica della psichiatria italiana: le numerose iniziative legate al dibattito sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, alcune pubblicazioni importanti (ad esempio Indagine su un’epidemia – lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci, di Robert Whitaker – Fioriti editore) e soprattutto la rinascita di forme autonome di protagonismo dei pazienti, riaprono una prospettiva che sembrava definitivamente tramontata.

fahrenheit


31 dicembre 2013, intervista con felice cimatti.

leggere per non dimenticare

venerdì 13 dicembre (e non si dica che sono superstizioso), nella splendida biblioteca delle oblate di firenze, terza presentazione de la fabbrica della cura mentale. c’erano due basagliani veramente importanti, paolo tranchina e rocco canosa. paolo tranchina ha parlato di chirone, l’essere dalla doppia natura, cavallo e uomo, il guaritore che conosce le erbe (farmacologo) ma sa pure suonare la lira (musico), e così dovrebbero saper fare i tecnici della mente, che invece si sono consegnati unicamente alla terapia farmacologica, dovrebbero sì avvalersi della conoscenza chimica, ma pure della conoscenza simbolica. rocco canosa invece ha sostenuto una cosa ancora più radicale di quello che ho ribadito io (la contenzione meccanica va abolita), ha detto che i spdc vanno aboliti, perché sono luoghi che creano violenza, si effettui la cura, anche acuta, nei csm aperti nelle 24 ore! alessia de stefano, basagliana della generazione dei trentenni, ha invece raccontato la sua esperienza, simile alla mia, di tecnico no restraint che lavora in un servizio restraint. invece cristina canzio, psicanalista argentina, fuori presentazione, mi ha fatto un complimento molto bello, che non c’entra niente col tema del libro ma con lo stile, ha detto che somiglia a quello di gabriel garcia marquez, di ernesto sabato e di julio cortazar.