la società dei devianti

domenica 31 maggio 2020

il fascino discreto del trattenimento sanitario obbligatorio






Dario Musso non è un anarchico come Franco Mastrogiovanni, non ha questa filosofia politica conficcata nel cervello ma è a suo modo un ribelle, un contestatore, un complottista direbbero quei pappagalli che oggi mettono a tacere qualunque idea divergente della società, della politica, della storia, attribuendo a piene mani l’etichetta di complottismo, Dario è un rapper è una persona drammatica e teatrale, se volessimo psichiatrizzarlo facendo diagnosi dai video che ha disseminato nel medium digitale potremmo dire un istrionico, ma non lo dico, sicuramente, a naso, quell’iperestesia, quell’eccesso di onestà che pure caratterizzava l’anarchico Mastrogiovanni, affliggeva pure il rapper di Ravanusa, che continuava a esortare con una generosità da martire i suoi concittadini, fratelli, ripete nei vari video, svegliatevi, ma quale lockdown, ma quale virus, ma quale mascherina, ma uscite ma bruciate il danaro ma smettetela di fare i servi.

Eppure qualche somiglianza c’è tra l’anarchismo del maestro di Vallo della Lucania e la ribellione generosa del rapper di Ravanusa. Sono due contestatori, due disobbedienti, in misura diversa, generazioni diverse, che muovono forse anche da sponde ideologiche diverse, destra e sinistra potremmo dire per semplificare, oppure no, cultura alta cultura bassa, ma nemmeno.

Il denominatore comune è che entrambi talvolta eccedevano, l’umore, possiamo dare la colpa all’umore, il gran colpevole di quest’epoca (siamo o non siamo la società della depressione e del suo rovescio l’euforia?), che in certi esseri umani non riesce a stare in equilibrio ma a volte si esalta e a volte si sconforta. E così facendo si porta appresso il pensiero, che si megalomanizza in un caso o si fa apocalittico nell’altro. E l’equilibrio psichico viene meno. Mastrogiovanni aveva, prima dell’ultimo, subito altri ricoveri. Dario, a quanto pare, uno. Ma molti anni prima.

Quel che è certo è che entrambi subiscono un TSO spettacolare. Nel senso di società dello spettacolo proprio. Alla Guy Debord, dico. Quei TSO che non passano inosservati perché vengono filmati, registrati. Mastrogiovanni, fine giugno 2009, era stato multato dai vigili pare per eccesso di velocità nel centro storico di Acciaroli. Aveva fumato una canna, sembra. Un vigile, aveva fatto la diagnosi. Sguardo perso nel vuoto, scrive nel verbale. Il sindaco dà il via alla caccia all’uomo. Il giorno dopo: l’inseguimento, la fuga, in mare addirittura, a cantare si dice Addio Lugano bella! Lo vedete che pure Mastrogiovanni era un istrione? Una motovedetta informa i bagnanti che sono impegnati in una caccia all’uomo, dodici carabinieri, c’è una preda da braccare davanti ai suoi stessi alunni. Vienne atterrato in spiaggia. Siringato in spiaggia. Portato in ospedale. Sedato. Legato. Morto. Solo quelle telecamere a circuito chiuso di cui tutti si erano scordati ce lo restituiscono, il Cristo altissimo morto che diventa film, 87 ore, di Costanza Quatriglio, e diventa canzoni, 82 ore, di Pierpaolo Capovilla, Ballata per Mastrogiovanni di Alessio Lega.

“Possiate ricordarvene domani mattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di conversare con questi uomini, nei confronti dei quali, riconoscetelo, non avete altra superiorità che la forza”. Queste parole, scritte da Antonin Artaud quasi un secolo fa, scritte quando ancora non immaginava che ci sarebbe finito, nel manicomio di Rodez, sembrano accompagnare le immagini del film di Costanza Quatriglio dove si raccontano gli ultimi quattro giorni di agonia, tortura, cristologica passione del maestro anarchico. Ma sono parole che stanno benissimo anche addosso ai filmati che non abbiamo, ma possiamo immaginare, del ricovero di Dario.

Non ci sono immagini del ricovero di Dario perché nel SPDC di Canicattì non ci sono telecamere come nel SPDC dell’ospedale di Vallo della Lucania, telecamere di sorveglianza, che registrano i fatti. Si vede una persona, che entra da uomo vivo, un uomo altissimo, il maestro più alto del mondo lo chiamavano i suoi scolari, tranquillo, saluta, stringe la mano degli infermieri, si alimenta, si fa siringare, infine si addormenta. E quando è orizzontale, in posizione clinica, ridotto a corpo, corpo che dorme, viene legato al letto.

I medici clinici amano mettere a corpo clinico, a corpo morto, i degenti, i malati. E’ un debito che hanno contratto, i medici, tempo fa, verso l’anatomia patologica che sapeva (e sa) interrogare il corpo morto per mezzo del coltello, coltello che riduce in brani e vetrini. E dice qual è il male. L’ospedale è corpo morto. Diviso anatomicamente in una serie di organi, dalla testa al torace alla pancia ai genitali alle ossa. Eppure, non ci sarebbe bisogno di mettere un sofferente di testa a corpo morto. Pensateci. Una gamba rotta, ha senso mettere a letto la persona col femore rotto. Un cuore in affanno, ha senso mettere a letto a corpo morto un cardiopatico. Pure un epatopatico o un dializzato o un epilettico ha senso mettere a corpo clinico. Ma un euforico no. Un depresso no. Un allucinato no. Non ha senso immobilizzarlo a letto legandolo mani e piedi e agonizzandolo coi farmaci e chiudendo le porte di quel reparto l’unico chiuso dell’ospedale libero, e generale, e civile.

I medici non lo sanno neppure loro perché continuano a dire, paternamente al malato, si metta a letto. E al malato se è riluttante alla posizione clinica dicono, si leghi quell’uomo al letto.

Il film 87 ore (vedetelo se non l’avete ancora fatto) racconta l’uccisione di Mastrogiovanni trasformato in homo sacer, in colui che, suggerisce Agamben (e lo so che adesso Agamben non va più di moda, troppo inviso a destra e sinistra), è una vita uccidibile, perché avendo trasgredito può essere prima escluso dalla società e dopo soppresso. Sotto questa luce i malati psichiatrici oggi sono come gli ebrei nei campi di concentramento, o gli immigrati clandestini, esseri umani ai margini della società, già morti in vita, homines sacri, uccidibili senza troppi scrupoli etici.

Scrive Franco Basaglia, ne L’istituzione negata, che in manicomio entra un corpo, già indebolito dalla malattia. Ma quando penetra in quel luogo dove “prima di uscire vengono controllate serrature e malati”, dove il corpo del malato diventa suppellettile al pari di una serratura o di una porta, ecco che il suo corpo smette di essere soggetto (corpo che sono, leib, per usare le parole di Husserl) e diviene oggetto (körper, corpo che ho). E inizia così, spogliato, disumanizzato, la sua carriera morale di malato mentale.

Ma ciò che il film su Mastrogiovanni, inesorabile, ai limiti dell’inguardabile, ci racconta, è che il manicomio (o i suoi succedanei, come queste piccole istituzioni della violenza che molti reparti psichiatrici ospedalieri d’Italia sono diventati) disumanizza non solo i malati ma, seppure in modo diverso, anche il corpo curante.

L’infermiere che nel film 87 ore (ripeto, cercatelo, guardatelo) dice che non aveva bisogno di andare nella stanza di Mastrogiovanni, perché lo controllava bene dai monitor delle telecamere, è un essere umano che, almeno quando vive in quel reparto, si è disumanizzato, fatto macchina pure lui, diventato oggetto, suppellettile, chiave, serratura, videocamera egli stesso.

Oppure il medico che, a Grazia Serra, la nipote del maestro, che vuole visitarlo, le risponde: non c’è bisogno, perché ora è sereno (sereno!) e deve starsene tranquillo per altri dieci giorni a fare questa terapia (questa terapia!), è quanto di più lontano ci possa essere non solo da un medico etico, ma perfino da un essere umano decente.

Per questo 87 ore sembra essere non un documentario ma un film dell’orrore (e ciononostante va visto), attraversato da tanti robot, zombie, sia i poveri malati annichiliti dai farmaci (sono tutti allettati i malati di questo reparto spettrale, chi legato dalle fasce chi legato dai farmaci, e l’unico che, nei primi minuti di ricovero deambulava, era proprio Mastrogiovanni, troppo vitale dunque, e subito ridotto anch’egli a una dimensione di orizzontalità cadaverica), sia i curanti (curanti!) che si aggirano, con movimenti meccanici, in questo labirinto kafkiano, in questa fortezza chiusa, inespugnabile, che è il SPDC.

“Ho pensato, signor giudice, di liberarlo, se dipendeva da me l’avrei fatto”, così si giustifica un infermiere. E sembra di sentire di nuovo Adolf Eichmann nel processo di Gerusalemme che si difende, che si giustifica: eravamo in guerra, avevo degli ordini superiori, non dipendeva da me. Eccolo qui, ancora vivo, quel male non eccezionale ma banale, perfino normale, di chi uccide un uomo e nemmeno si rende conto della sua responsabilità.

Dario Musso non è morto, per fortuna, a differenza di Mastrogiovanni. Forse perché la spettacolarizzazione che il martire Mastrogiovanni fece suo malgrado del suo corpo, della sua nuda morte, è servita (un poco) da lezione? Ah quanto vorremmo credere che il caso Mastrogiovanni sia servito a qualcosa. O che sia servito il caso di Giuseppe Casu il venditore ambulante che nel 2006 lancia una bottiglietta di acqua minerale come gesto di protesta alla sospensione della sua licenza di vendere e viene sottoposto a TSO e muore e sparisce perfino il corpo, lì nei bassifondi dove si fanno le autopsie. O il caso di Andrea Soldi pure lui immobilizzato finché muore vicino alla sua panchina di Torino. O quello di Massimiliano Malzone a Salerno. O, l’estate scorsa, la morte di Elena Casetto, una ragazzina, che brucia nel suo letto di contenzione, nel SPDC di Bergamo.

Nessuna lezione invece. La psichiatria hard tira dritta per la sua strada. Quella sua strada che viene dal manicomio e fa un circolo tortuoso e come un Uroboro ritorna in bocca al manicomio. La psichiatria ha un tenace legame, una sorellanza proprio, con lo spirito del manicomio, con le prassi del manicomio, la gran parte degli psichiatri (a meno che non abbiano fatto su di sé un lavoro di decostruzione dall’imprinting con cui vengono fabbricati: diagnosi-farmaco-fasce) pur non avendo conosciuto l’edificio manicomio, l’ideologia manicomio ce l’hanno cablata nella scatola cranica.

Le immagini del TSO brutale, selvaggio, maldestro di Dario, hanno fatto il giro d’Italia. Il sindaco di Ravanusa e i sanitari del SPDC di Canicattì sono stati sommersi di telefonate, mail, tra queste la richiesta di spiegazioni da parte di Gisella Trincas dell’UNASAM (associazione italiana dei famigliari di persone con disturbo psichico) o la lettera del garante dei detenuti. Questa pressione mediatica ha dato luogo, probabilmente, alla sua rapida dimissione, altrettanto selvaggia.

Così come nel ricovero di Mastrogiovanni, anche nella cattura di Dario Musso le immagini sono senza appello. Dario esce dall’auto, è tranquillo. Viene circondato da carabinieri polizia municipale e tre sanitari in camice. Uno dei quali si arma non di parola, colloquio, relazione, ma di una siringa caricata e puntata verso il gluteo di Dario, da attraversare e inoculare attraverso i pantaloni e senza disinfezione. In questi mesi di enfasi immunitaria, dove tutto è disinfettato, l’iniezione fatta senza alcuna profilassi, poi, è davvero paradossale.

Dario, come Mastrogiovanni in spiaggia davanti ai suoi alunni, viene atterrato sull’asfalto e siringato. Dov’era lo stato di necessità (articolo 54 del Codice Penale) che giustifica questa urgenza di sedarlo lì, subito, sull’asfalto? Dov’era la necessità di legittima difesa (articolo 52 del Codice Penale) che giustificava la sua presa e l’atterraggio?

Due dottoresse propongono e convalidano il TSO, il sindaco in giornata, 2 maggio, emette l’ordinanza. Dario viene ricoverato presso il SPDC dell’ospedale di Canicattì. Ma voglio dirlo chiaro. Lo scandalo non è il TSO. Il TSO esiste, è uno strumento, un dispositivo per curare una persona che ha delle alterazioni psichiche, di cui non è consapevole e dunque ricusa le cure, quando non ci sono altre condizioni per intervenire se non in ambito ospedaliero. Il TSO è una tutela. Ma deve essere extrema ratio. Arrivarci solo quando ogni negoziazione, per ottenere l’adesione alle cure, è fallita.

A Dario è stato chiesto, proposto, un trattamento? E quando è avvenuta la negoziazione terapeutica? Lì, sull’asfalto, quando Dario è con la faccia a terra? La prima valutazione, da parte del medico proponente (la sua dottoressa di medicina generale), è stata fatta in contumacia. Basandosi probabilmente sulla visione dei video dei giorni precedenti (video inquietanti, certo, ma non bastano per proporre un TSO), e facendo una telefonata a casa di Dario, dove parla con sua madre (peraltro nemmeno dichiarandosi come il suo medico di base, ma perché nascondersi?), ma non con Dario. E basta questo tentativo per innescare la proposta di TSO? E il medico psichiatra che convalida, a quanto pare, è una dei tre sanitari intervenuti per strada. Pure lì, non sembra che Dario abbia avuto l’opportunità di parlare con un medico in un setting decente, privato, rispettoso della sua dignità.  Il setting è stato la strada. O meglio, l’asfalto.

Dopo la cattura viene condotto in SPDC a Canicattì. Non abbiamo telecamere che ci raccontino quei giorni. Non ci sono telecamere come a Vallo della Lucania ma ci sono le registrazioni audio di suo fratello, che nonostante sia un avvocato, per quattro giorni cerca di vederlo, o almeno parlare con lui per telefono, invano.

La dottoressa al telefono si nega. Si schermisce in un modo, che sembra ancora la banalità del male in azione. Ora dorme, dice una volta. Non abbiamo il cordless, dice un’altra volta. Ora ho un’urgenza, devo fare due ricoveri. Ma a chi la racconti, collega? (e mentre scrivo la parola collega mi viene in mente la poesia di un poeta trevigiano che dice Io non sono collega di nessuno). Uno psichiatra decente non si difende dal famigliare, anzi lo cerca, parla con il famigliare, fa entrare il famigliare a visitare la persona ricoverata. Soprattutto se questa persona è legata, sedata, cateterizzata.

C’è una straordinaria somiglianza di gesti, di prassi, di omissioni, di malpratica, di assenza di deontologia di professionalità di etica tra il modo con cui lo psichiatra impedisce, nel 2009, alla nipote di Mastrogiovanni di vedere suo zio legato (dorme, riposa) e il modo con cui la psichiatra impedisce, nel 2020, al fratello di Musso di vedere suo fratello legato (dorme, riposa). E’ la banalità della peggiore psichiatria che Basaglia e i basagliani pensavano di aver seppellito quarantadue anni fa insieme ai manicomi invece è qui, più perniciosa che mai.

Perché Dario viene tenuto legato e sedato per tutto il tempo? (viene slegato dopo cinque giorni) E’ una domanda retorica la mia perché io lo so, che viene facile legare e difficile slegare. Slegare una persona che è stata legata è un momento perfino più difficile (e carico di responsabilità) della decisione di legarlo. In questi anni mi sono preso, molte volte, la responsabilità di slegare, quando la contenzione durava oltremisura. Perché non sto scrivendo da una torre d’avorio, io. Non scrivo da un SPDC no restraint come ce ne sono sempre meno in Italia. Scrivo da dentro un SPDC restraint che in questi ultimi dieci anni ha provato (tra alti e bassi) a ridurre drammaticamente sia il numero sia la durata delle contenzioni. Ma il mio ruolo critico nel SPDC dove lavoro non mi impedisce di esercitarlo anche rispetto a SPDC d’Italia dove la contenzione sembra essere la regola. A Vallo della Lucania, le immagini raccontano, erano tutti legati o sedati. Non vi erano ricoverati verticali. Dominava l’orizzontalità. Il corpo morto di cui dicevo prima.

Appena entra in reparto Dario viene legato ai quattro arti più (lo racconta nell’intervista alle Iene vedi qui) una fascia sul torace. Dunque, se fai un TSO tanto drammatico, e tieni legata una persona per cinque giorni, è senz’altro per un disturbo molto grave. Eppure Dario viene dimesso, dopo una settimana, di cui cinque giorni legato e sedato, con una non-diagnosi, che testimonia  l’incoerenza dei medici che hanno gestito il suo ricovero.

Perché non è stato un TSO. Non è stato un Trattamento Sanitario Obbligatorio, questa cattura di sette giorni senza un prima (negoziazione) e senza un dopo (presa in carico da parte del Centro di Salute Mentale) è stato un Trattenimento Sanitario Obbligatorio. Che non ha convinto certo Dario Musso o la sua famiglia ad affidarsi a quel servizio di salute mentale.

Purtroppo, non basta essersi liberati del manicomio, quarantadue anni fa, con una splendida legge (180) che si sta purtroppo svuotando progressivamente dei suoi contenuti. I suoi contenuti rivoluzionari erano che il manicomio, in quanto anti-terapeutico, andava distrutto, abolito, perché la cura non è la deportazione in luoghi-a-parte, ma è restare nella comunità, grazie a una rete di servizi, capaci di intercettare non solo la necessità di cura farmacologica o di colloqui, ma i bisogni di abitare, di lavorare, di socializzare.

Ecco che alcuni servizi di salute mentale questa presa in cura non la sanno fare, il Centro di Salute Mentale che avrebbe dovuto occuparsi di Dario, a giudicare da come ha gestito questo suo momento di disagio, sembra un guscio vuoto, un contenitore senza contenuto, ecco perché in certi territori si opera inseguendo l’urgenza,  in Sicilia si fanno 30 TSO ogni 100.000 abitanti, un numero stratosferico, dieci volte maggiore del Friuli, dove se ne fanno 3 ogni 100.000 abitanti. Perché se non sai fare la presa in cura, non ti rimane che fare la presa, e basta.

Il numero di TSO non è mai un dato casuale, indica la qualità di un servizio di salute mentale. Lo stesso vale per la prassi di legare le persone. Se fai tanti TSO, se ricoveri sempre persone in grave crisi, obbligandole, più facilmente nel corso del ricovero adoperi le fasce. Molti TSO e molte contenzioni sono eventi sentinella che raccontano quanto un servizio di salute mentale sia in sofferenza e si affidi alle prassi manicomiali.

Il manicomio si reggeva su tre cardini: la reclusione l’isolamento e il dominio. Il trattenimento di Dario Musso, questo spettacolare TSO ai tempi del lockdown, ci ha riproposto il manicomio, e ci ha riproposto la necessità della reclusione dell’isolamento e del dominio proprio nei mesi in cui, un’intera nazione (sessanta milioni di persone), ha vissuto sulla sua pelle il fascino discreto del manicomio.  Perché questo è accaduto: per due mesi, un’intera nazione, è diventata manicomio. E il rapper di Ravanusa, che con troppa enfasi, si ribellava a questo manicomio, è stato portato in manicomio.



lunedì 20 aprile 2020

fenomenologia brevissima di roberto burioni







Umberto Eco, chi non la ricorda, fece la fenomenologia di Mike Bongiorno. In breve, scrisse, mister Allegria piaceva al pubblico italiano perché era proprio non dico fesso, ma medio, mediano, qualunque, per cui tutti si dicevano se è arrivato lui lì, a fare Rischiatutto, potrà capitare pure a me, o anche, io pure potrei stare al suo posto, un giorno hai visto mai che capita a me.

Poco fa invece leggevo di un virologo, che nonostante la riduzione dei contagi consigliava di stare ben bene chiusi in casa fino a settembre almeno, e abbottonati e indossare la sciarpa, e ho subito pensato a Roberto Burioni, o meglio, mi sono ricordato di un’intervista che fece qualche tempo fa, quando iniziò a essere il numero uno dei virologi divulgatori, come dice Tarro la miss Italia della virologia, sempre sulla passerella. Sono andato a googolare.

Eccolo, dice:
Non riesco nemmeno a pensare alla morte. Ne sono terrorizzato. Se qualcuno, a casa o fuori, comincia a parlarne, io scappo. Letteralmente
Sì, rincalza l’intervistatrice, ma lei fa il medico!
E lui: Lo so, eppure non riesco a immaginare di morire, che cosa ci posso fare? Così come non fatemi nemmeno vedere gli aghi: ogni volta che c’è da fare il vaccino antinfluenzale io sono tentato di scappare.
Ma professore...
Pensi che una volta mi hanno ricoverato perché dovevano togliermi dei calcoli, un intervento da niente, lo so bene. Ma lo sa qual è stata l’unica cosa che mi ha trattenuto dal fuggire dal reparto?
Non oso immaginarlo.
La certezza che sarei diventato la barzelletta dell’ospedale. Le dirò di più: il pediatra di mia figlia si rifiuta di parlare con me, mi evita garbatamente per strada e si nega al telefono. Perché io sono ipocondriaco anche di riflesso, cioè pure quando si tratta della salute della bambina. E non le ho raccontato ancora la cosa più incredibile.
Qualche volta mi metto a dieta. Perdo cinque o sei chili. Ma poi, vedendomi smagrito, comincio a tremare: e se avrò qualche brutto male?, dico a me stesso. Quindi ricomincio a mangiare per riprendere i chili persi e, in tal modo, tranquillizzarmi. Capisce? Altro che scienziato freddo e cinico.

Ecco, lui pensava di fare il simpatico.
Invece ci ha chiarito perché siamo finiti tutti dentro, in casa agli arresti, in questi mesi.
Perché siamo governati non più dai politici (perché nel frattempo si era deciso di mettere a nostra rappresentanza non i migliori ma i più fessi) ma dai virologi. I virologi che dopo anni di microscopio e avvilimento non gli pare vero di essere diventati delle star. Vi ricordate Mani pulite? Le star allora erano i giudici. Tutti a iscriversi a giurisprudenza! Pure io da grande sarò Antonio Di Pietro. Inchioderò Craxi e farò schiumare di paura Forlani. Un bel po’ di magistrati, dopo la passerella di Mani pulite, passarono in parlamento a governare il paese.
Bene, oggi abbiamo Mani lavateBocche coperteCorpi segregati. Le star stavolta sono i virologi. I virologi scommettiamo che nella prossima legislatura lasceranno i microscopi e siederanno in parlamento? E tutti iscritti a medicina, dal prossimo anno, per fare i virologi da grandi. 
Ma, dicevo, nella mia (doveva essere brevissima) fenomenologia di Roberto Burioni (e della maggior parte dei virologi).
I medici in genere sono ipocondriaci. Fanno i medici per riuscire a dominare il nosos, la malattia, e allontanare il tanatos, l’incubo della morte. Il loro conflitto è sempre stato tra logos e nosos, nosos che prelude al tanatos.
Coloro che infine scelgono la microbiologia e (peggio) i più piccoli tra i microbi (i virus) è come avessero una paranoia di fondo. Ciò che non si vede, quanto più è piccolo, tanto più è temibile. Il microscopio è l’oggetto transazionale del virologo. La sua coperta di Linus.
Ma non c’è peggior virologo del virologo ipocondriaco che si trova ad avere un ruolo di informazione, comunicazione, o decisione, nel momento in cui c’è una pandemia determinata da un virus non meglio inquadrato nella sua reale perniciosità.
Il virologo ipocondriaco è una vera iattura perché dirà: state in casa. Non uscite. Se potete, l'ideale sarebbe che non usciate mai più.

sabato 18 aprile 2020

elogio del camminante






Ormai questo blog è diventato il diario della resistenza alla scemenza. Oggi 18 aprile alle 18 sulle sponde dell’Isar, Monaco di Baviera, Germania, decine di persone saggiamente distanziate prendono il sole. In Italia invece i poveri runner o camminatori o stesi al sole devono passare per criminali. Un tipo a Cattolica ha collezionato nove multe eppure ogni giorno va a correre. Un altro a Palermo ogni giorno va in spiaggia a Mondello, scendono gli elicotteri e gli fanno la multa, è alla quinta mi pare. Io ho smesso di andare al parco. Il giorno di Pasqua e Pasquetta era impossibile andare a correre al parco, gli elicotteri e magari i droni erano là sopra a controllare, sarò pure Anarchik ma non fesso, e mica mi immolo per farmi prendere dai segugi aerei. Come è capitato al povero mio omologo già ribattezzato l’uomo della Caffarella, che ha fatto festeggiare con un tweet la sindaca sceriffa della Capitale, quella che ha istituito il Sistema Unico di Segnalazione. Ne abbiamo pizzicato un altro, dice la sindaca. Pizzicato, l’ha pizzicato. Allora per non essere pizzicato io pure, ho diversificato la strategia di resistenza psicoanarchica al lockdown. Abito al Quadraro. A cinquanta metri dal commissariato di Polizia. Un vantaggio anzichenò. Duecento metri ci concedono di svago ginnico perché Jack non davanti un triste figuro? Sta bene. Vorrà dire che orbiterò come un pianetino attorno a un’ellisse, dove uno dei due fuochi è il palazzo dove abito, l’altro fuoco è il commissariato. La distanza del fuoco dall’ellisse sarà duecento metri (abbondanti). Ho girato così, a Pasquetta, passando, a ora di pranzo, in mezzo a decine di blindati che (non lo sapevo) si fermavano proprio a quel commissariato per fare la pausa pranzo. Passavo in mezzo a loro, i militi (carabinieri poliziotti finanzieri) mi guardavano, io li guardavo, aspettavo proprio che mi fermassero purtroppo non mi fermavano, vuoi perché era l’ora di mangiare e non avevano voglia di perdere tempo con questo rompiscatole che correva in mezzo a loro proprio quando era ora di mangiare, vuoi perché ero troppo sicuro di me chi altri avrebbe osato passare per decine di volte in mezzo a loro, e la cosa gli suonava strana, come minimo avrà un salvacondotto papale pensavano, vuoi perché erano in torto loro, lì assembrati e la metà con mascherina abbassata e ero super pronto per far valere la mia laurea in medicina per riprenderli, coglierli in fallo, ammonirli, fare tutto uno sproloquio sulla differenza tra mascherina egoista quella altruista e quella intelligente (l’unica che non avevano), stigmatizzarne il comportamento criminale, potevano infettare me e infettarsi tra loro, che diamine!
Così, a Pasquetta, tra le 13 e le 14 ho corso 10,45 km attorno a un commissariato di Polizia e a decine di blindati e di militi, purtroppo senza l’ebbrezza di violare la legge che ho quando rompo i sigilli del parco.
Oggi invece, dopo aver da sopra il ballatoio meravigliosamente esposto a est assorbito vitamina D solare a volontà, all’una sono sceso, partito da via del Quadraro ho deciso che non avevo voglia di fare dieci volte un periplo di un chilometro come a Pasquetta ma mi sono allargato. Sceso su via Tuscolana, percorro la ciclabile per mezzo chilometro, rientro per via di Lucio Sestio giro a sinistra su viale Spartaco che percorro fino in fondo a incontrare il parco degli Acquedotti, lì sono tentato di entrare entro non entro infine decido che non entro torno indietro passo in zona Cossuto raggiungo via Luscino proseguo per via Erminio arrivo a Via Selinunte zigzago tra le case abusive condonate di via dei Sulpici apprezzo la bellezza incomparabile di questo quartiere ora ricordo perché lo scelsi per viverci mi allungo per via degli Opimani arrivo fino alla piazzetta del Quadraretto decido a questo punto di tornare indietro visto che sono già un cinque chilometri buoni, è chiaro che non è la stessa cosa è chiaro che mi sto intossicando di polveri sottili perché le auto scorrazzano e la mia asma maledirà finché campa la scemenza di chi ha decretato tutto ciò, il parco alberato di 240 ettari chiuso e le vie carrozzate aperte, ma tant’è, vado avanti, d’altra parte come lo vuoi aggredire il virus, se non rinforzando il tuo sistema immunitario, stando dentro ingozzandoti di cibo e birra e psicofarmaci e non spingerti oltre i duecento metri da casa? Un’istigazione all’ingrasso!, proprio. Oggi leggevo che in questi mesi di epidemia si sono ammalate più gravemente o sono morte le persone che già avevano uno stato infiammatorio cronico, persone in sovrappeso, ipertesi, diabetici, chi assume molti farmaci, chi già ha il sistema immunitario fragile insomma. Be' gli esperti hanno suggerito il modo migliore perché tutti diventino un po’ più fragili: obesi alcolizzati esauriti apatici. Bravi. Bravo Burioni. Aspetta che ti arriva il Nobel, aspetta. Intanto faccio un altro giro raddoppio e sono dieci chilometri. Arrivo a casa mi lavo e mi rimetto sul balcone, che invece volge a sud, proprio su largo Spartaco. Dopo aver sbocconcellato due arance (vitamina C) mi apro La chimera di Vassalli (vitamina I). Parla di una povera donna, bellissima, di Zardino, che nel 600 viene bruciata per strega. Ieri sera ho iniziato a vedere Menocchio, la storia del mugnaio eretico pure lui bruciato dall’Inquisizione. Alterno la lettura di Vassalli con Storia notturna, una decifrazione del sabba, di Carlo Ginzburg. Perché è tempo, questo, dei nuovi inquisitori. Ora non è più la Chiesa ora è la Scienza che si è sostituita alla Chiesa in questo patto con lo Stato, o con i deep stati, per imporre un pensiero unico. Chi non si allinea, verrà fatto fuori.
Antonia, la strega di Zardino, in realtà, non andava di notte all’albera per fare il sabba. Macché. Andava a incontrarsi con Gasparo, il camminante. Chi erano i camminanti? E perché la bellissima, indomita Antonia, si innamora proprio di un camminante? Ma perché erano gli… “anarchici della campagna”, che avevano “perduto gli istinti sanguinari” ma conservavano “l’odio per la servitù”.
“Donde vengono? Donde vanno? E’ un mistero”. “Qualche volta, tuttavia, anche la vita con le sue più grossolane lusinghe li attrae; e allora compaiono improvvisamente in qualche osteria di villaggio, gozzovigliano, cantano allegramente, ballano magari con le compiacenti paesanelle, sprecano quel denaro che sdegnano di possedere, essi che comandano a quelli che lo posseggono… E poiché osano sfidare la forza pubblica… e scorrazzano per i campi e impongono condizioni ai proprietari e ai fittavoli, per un desiderio rabbioso di vita libera, per un sentimento d’orgogliosa fierezza, è naturale che il popolo delle campagne, pur temendoli, li ammiri e che ammirandoli li aiuti. Camminano, camminano, di rado per le vie maestre, spesso per i sentieri, ma per lo più, per uno strano simbolismo delle cose, fuori da ogni via calpestata dal servil gregge umano, dietro certe tracce misteriose seguite dal loro capriccio. Camminano, camminano, sotto il solleone ardente o sulla neve gelata. E dopo aver riposato qua e là, e aver chiesto e ottenuto di sfamarsi col frutto di quella terra di cui si sentono non servi ma padroni, camminano ancora”.
Questo scritto non è di Sebastiano Vassalli ma del Massara, uno scrittore del tardo Ottocento da cui Vassalli prende e io prendo da Vassalli e chi vorrà prenderà da me.
Mi domandavo, mentre correvo tra le case del mio quartiere, cosa avrebbe pensato Gasparo Boso detto il Tosetto vestito di abiti appariscenti e volgari brache aderentissime per evidenziare (qui è Vassalli che scrive) “ciò che oggi si chiamerebbe il bozzo” ma che allora si diceva “la bottega”, e che portava appesi alla cintura un coltellaccio e un pistolese, e con in testa un cappello piumato che non era un cappello da pìcaro, che il camminante non è mica un pìcaro che cambia condizione come niente fosse, “oggi mendicante domani servo di un principe, un camminante è camminante e basta”, cosa avrebbe pensato, mi domandavo, mentre facevo i miei soli dieci chilometri, del servil gregge umano di questi tempi? Avrebbe riso o avrebbe sputato in terra all’immunità del gregge, alla paura di morire che istupidisce il gregge umano?

sabato 11 aprile 2020

Io, Anarchik




Le leggi ingiuste, criminali, o stupide, vanno trasgredite. E’ la prima regola, per non diventare Eichmann. La prima regola per non cadere nella banalità del male. E così pure oggi, dieci aprile 2020, quasi quarantesimo giorno di quarantena, o di lokdown come si suole dire, sono andato, io solo, a correre nei 240 ettari del parco degli acquedotti romani. Io e gli animali del parco. Ho saltato i sigilli dei poliziotti municipali e mi sono inoltrato. Sapevo che la corsa ci regale le endorfine perché ci riporta alla dimensione ferina di quando eravamo ominidi, si correva, allora, per cacciare o per sfuggire ai predatori, io oggi mi sento un po’ preda dell’eventuale poliziotto municipale appostato nelle frasche, un po’ cacciatore, predatore della stupidità di questi tempi. Corro e porto con me l’anima di Gerardino Caso da Mirabella Eclano, a pochi chilometri dal mio paese avito, si è impiccato all’inizio del lockdown, quando i runner sono diventati i capri espiatori dell’imbecillità dei politici al comando. Anni di depauperamento del servizio sanitario nazionale, anni di sciacallaggio della scuola diventata un pollaio per polli, e all’improvviso la colpa dei morti era di Gerardino Caso, e Gerardino Caso non ci sta, e con un gesto titanico si impicca, e io me lo porto con me, in tutte queste corse ossessive, ossessionate, compulsive, coatte quasi, mi sono imposto di correre anche quando la schiena mi doleva, non ho mai corso tanto in vita mia come in questi quaranta giorni in cui è stato proibito correre, ho corso per me, si capisce, e ho corso per Gerardino Caso. E corro per i piccoli Eichmann, ma non gli Eichmann con la maiuscola, ma i tanti eichmann con la minuscola che si sono presto adattati a non avere, più, nemmeno la libertà di movimento. Correvo per la piccola eichmann che mi scrisse che dovevo vergognarmi a strumentalizzare la morte di Gerardino Caso. Era per colpa sua, era per colpa della piccola eichmann, per il suo giudizio morale, per il suo severo #devi-restare-a-casa che Gerardino Caso e altre persone fragili, con l’esistenza borderline, ma proprio nel senso letterale di costantemente al limite tra il farcela e il non farcela, si era ucciso, sarebbe bastato che il proprio psichiatra, se non fosse stato un piccolo eichmann, gli avesse redatto un certificato, un permesso di uscire, un permesso di correre con le dovute precauzioni e distanze, be’, Gerardino Caso e molti altri come Gerardino Caso non si sarebbero uccisi, in questi maledetti quaranta giorni che hanno cambiato le nostre vite.
Mentre corro guardingo, non è più la corsa dissociata di un tempo, non c’è spazio per entrare in un altro stato di coscienza, restare tutto il tempo guardingo dovesse uscire il predatore, ripenso alle molte lettere ricevute in queste settimane da chi legge questi scritti.
Ciao, grazie per lamicizia e soprattutto grazie per gli articoli che hai scritto da quando è iniziato questo delirio... Ti ho conosciuto così, leggendo uno di tali articoli. Io vivo a X, una delle province con le misure più restrittive di tutte. Sono una libraia, per cui non posso uscire nemmeno per andare a lavorare. Ho un parco enorme a 300 metri da casa ma ne è vietato laccesso (vivo in centro ed è sempre pieno di pattuglie). Abito in una mansarda senza terrazzi, ho solo due finestre con le inferriate... Soffro da sempre di depressione e per me la passeggiata solitaria e la luce del sole sono veramente unesigenza vitale. Ho chiesto alla mia psichiatra/psicoterapeuta se poteva farmi un certificato, ma mi ha risposto di no, perché viene prima la salute pubblica! Eh, mica tutti ragionano come te. Io francamente mi sento di impazzire, soprattutto perché hanno già iniziato a dire che prorogheranno le misure fino a metà maggio... Non so manco perché ti scrivo, forse perché non trovo altre voci ragionevoli in giro... Perché lordine degli psichiatri e quello degli psicologi non si uniscono per chiedere e rivendicare delle cose, tipo il diritto a una camminata? A me questa situazione sembra totalmente assurda...
Le rispondo che lo è, in effetti. Non so neppure io perché gli psichiatri siano così accondiscendenti, tutti, anche coloro che si professano basagliani, rispetto a queste misure. Non vedo che cosa gli costi, formulare un certificato, che uno si possa portare con sé, da esibire al poliziotto ansioso di multare. Magari poi la multa, se è zelante, se è un esecutore ottuso, la fa lo stesso, ma magari no, se ha un briciolo di buon senso. Che posso dirti: tieni duro.
Intanto, l’avvocato degli italiani si è dotato di un bel po’ di consulenti in più, adesso, a parte gli esperti di contagio, ha messo in squadra il mio amico Fabrizio Starace, l’unico psichiatra, in questa ventina di cervelli di scienziati che compongono la nostra nuova democrazia, ormai siamo governati (in barba a Feyerabend) da una espertocrazia. I politici decretano legge il parere degli esperti. Fabrizio Starace è, probabilmente, il migliore psichiatra che potesse entrare a far parte di un collegio di esperti. Cinque anni fa io e lui eravamo i due vice portavoce del Forum della Salute Mentale (portavoce Vito D’Anza), il resistente vascello degli ultimi basagliani. In cinque anni lui è consigliere del premier e io un pirata che infrange i decreti. Mi compiaccio della mia anti-carriera. L'anti-carriera dello psichiatra che si dissipa come soggetto di sapere/potere e si avvicina, progressivamente, al sapere/non potere degli esclusi. E' per questo che corro contro-legge, portando con me Gerardino Caso. Non so che cosa potrà mai fare, uno psichiatra, seppure basagliano, messo al governo, questo governo. Non vorrei essere al suo posto (anche perché in quel posto non ci saprei stare).
A fine corsa, nel punto di uscita del parco, un’auto dei vigili mi aspettava. Evidentemente il Sistema Unico di Segnalazione romano (che cosa indecente) aveva funzionato. Qualcuno aveva informato che un uomo, vestito di nero, con mascherina nera, forse era Anarchik di Roberto Ambrosoli (correvo anche per lui, morto da pochi giorni, e per il suo Anarchik) si era introdotto nel parco. Mentre mi preparo a uscire so che se mi fermeranno non contesterò, pagherò la multa, 500 euro una parte del mio stipendio di medico, cinque giorni di lavoro in ospedale a combattere il virus, regalato al comune di Roma per questo suo modo poco intelligente di combattere il virus. Non si potrebbe impiegare meglio gli agenti municipali? Portare cibo ai senza casa, invece di rincorrere me? Ma prima dovranno prendermi. Lascio passare la Panda, le sbuco dietro, non fa in tempo a girarsi, io esco dal parco, mi infilo nelle vie del Quadraro che mi riportano a casa. La maschera nera che mi copre il volto mi fa sentire davvero Anarchik.


venerdì 27 marzo 2020

Consigli di sopravvivenza psicosomatica al virus e all'idiozia



Anche oggi, disubbidendo al divieto, sono andato a correre. Già mi vedo i miei colleghi psichiatri e psicologi (soprattutto le donne, non ho capito perché) sbuffare: aridaje co’ ‘sta corsa. Una l’ho dovuta bannare perché dice che strumentalizzavo la morte del runner e non me la sono sentita di mandarla a quel paese col rischio di essere estromesso dal panottico digitale. Un’altra pure l’ho bannata perché mi ha detto altro che Basaglia io sarei Lombroso, che penso solo a correre. Ora aspetto la prossima maestrina che mi fa la ramanzina perché #iononrestoincasa#. Ho corso dieci chilometri precisi dalle 11 a mezzogiorno. Alle 14 ero in ospedale. Mi sentivo bene. Pronto ad affrontare l’eventualità del contagio. Perché ciò che gli ideatori di questa assurda quarantena di massa non hanno capito (mi domando chi sia se ci sia un consulente psichiatra affianco a Ricciardi, nel consigliare il modo migliore per affrontare il contagio) è che tutto si gioca nell’incontro tra due organismi: il virus e l’uomo. La possibilità di sviluppare l’infezione nelle sue forme più gravi, la polmonite interstiziale, e di morirne, dipende da una combinazione ben precisa: che la carica virale sia alta, e il sistema immunitario della persona infettata sia bassa. Tutto qua. Una persona che entra in contatto con una carica virale alta, ma che ha buone difese, molto probabilmente se la cava. Una persona che entra in contatto con una carica bassa, anche con basse difese se la può cavare. Una persona con buone difese immunitarie, se incontra una carica virale bassa, magari nemmeno se ne accorge (la gran fetta degli asintomatici, i cosiddetti portatori sani). Le persone che incontrano una carica elevata, e lo fanno quando sono deboli, col sistema immunitario compromesso da altre patologie, dall’età molto avanzata, dallo stress, da un surmenage lavorativo, dal poco sonno, dall’impossibilità di controbilanciare il lavoro con qualche ora di piacere (passeggiata, corsa, andare in bici), quelle persone, più facilmente, vengono sopraffatte dall’infezione, e muoiono. Mi colpisce, essendo un medico, l’enormità dei medici morti sul campo, una quarantina, finora. Due infermiere in prima linea nel nord Italia si sono suicidate. Ieri mi domandavo come fosse possibile. Ecco perché. Sono stati mandati al fronte senza protezioni. Fino a un paio di settimane fa, a cominciare da me, era difficile per gli operatori sanitari avere le mascherine. Moltissimi, in Lombardia ma non solo, sono stati costretti a lavorare anche quando sintomatici, febbrili. Molti medici di famiglia esposti, mandati allo sbaraglio. Esercitare la professione di medico, di infermiere, essere così esposti, non è come restare a casa a fare il telelavoro. Molti medici sono stati costretti a fare turni massacranti di dodici ore al giorno per molti giorni. In queste condizioni (è psicosomatica, è psicoimmunologia, non ci vuole un genio per capirlo) è più facile, se entri in contatto col virus, con una carica virale alta, visto che visiti decine di persone ogni giorno, ammalarsi e ammalarsi male. Tutti quanti continuano a ripetere #iostoacasa# come pappagalli, non sanno che chi fa lavori di tale esposizione, il giorno dopo, non solo dovrebbero avere la giornata di riposo o almeno mezza giornata di riposo, ma non gli fa bene restare confinato in casa. Ha bisogno di prendere aria. Come fece, qualche giorno fa, il medico rianimatore di Napoli, che correva sotto casa, e l’ottusità delle restrizioni del governatore campano, insieme all’ottusità degli agenti municipali esecutori pedissequi delle restrizioni, hanno fatto sì che un medico in prima linea sia stato messo, obbligatoriamente, in quarantena. Ora chi ci va a lavorare in rianimazione? La pattuglia dei municipali che l’ha quarantenato?
Ma io dico, dopo decenni di discorsi sulla psicosomatica, sul rapporto tra psiche, sistema immunitario e malattie, davvero si crede che per sconfiggere un’epidemia basti solo seppellirsi in casa?
La maggior parte degli psichiatri e psicologi questo non sembra averlo capito. Sono convinti che poi, per riparare i danni, bastino un po’ di pilloline e quattro chiacchiere, sì la cosiddetta psicoterapia, per aggiustare tutto.
Il comune di Roma poi, questa misera amministrazione di - come li hanno chiamati? - scappati di casa, presieduta da un’avvocata che è sembrata essere più un prestanome che la vera sindaca della città (così come il governo della nazione è presieduto da un avvocato che fino a pochi mesi fa era sotto tutela di Rocco Casalino e ora gioca a fare Winston Churchill) lancia la squallida campagna della delazione. Chiama al Comune!, se vedi l’assembramento o chiunque disattenda le restrizioni, chiamaci, perché tre soli sono i motivi che hai per uscire: lavoro salute e necessità.
Dal ventennio fascista non eravamo in uno stato di coprifuoco.

martedì 24 marzo 2020

Tecniche di resistenza urbana alla segregazione sanitaria





Pure ieri volevo andare a correre, era lunedì 23 marzo, siccome domenica 22 l’avevo trascorsa tutto il giorno nel dedalo, nel dedalo del nosocomio, sì in ospedale insomma, tutto il giorno mascherato bardato incamiciato lavarmi cento volte le mani e tutto quanto si deve fare.
Per cui avendo fatto dodici ore di domenica, ieri lunedì ero libero e normalmente sarei andato a correre infatti a mezzogiorno mi sono vestito e stavo già mentalmente preparando la strategia per giocare a guardie e ladri coi poliziotti municipali o carabinieri o gendarmi civili di quartiere ormai addestrati dalle tv nel nuovo mestiere del delatore sanitario. Mi vesto esco fuori fa freddo e mi dico ma vaffanculo. Non avevo voglia di fare questo gioco mi rimetto gli abiti civili e, fuori turno, vado in ospedale a dare una mano. Altro che stare in casa a riguardarsi a proteggersi dal virus, gli vado incontro, vado in ospedale anche fuori turno, basta un attimo, e lo status cambia, poco fa ero mister Hyde eccomi di nuovo l’eroico dottor Jekyll. Come sono mutevoli i ruoli.
Stamattina però sento i tg leggo il giornale, il delirio, ma che cosa gli sta succedendo a questi che governano? D’accordo i contagi d’accordo i morti, ma una cosa del genere non s’era mai vista, qui qualcosa ci sfugge, i droni, metteranno i droni, state certi che comprerò una fionda per uccellarli, sequestreranno le auto, duemila euro di multa, e come andrò al lavoro senza auto? Chi vi salverà dai fuori di testa che voialtri avrete mandato in tilt con il vostro stato di polizia? 
Indosso tuta e un giacchetto antivento nero da testa di cuoio, vado a comprare due cuffie per le videolezioni delle mie figlie, vado a comprare questo giornale sempre più merdoso che è Repubblica dove oggi Luca Bottura, che mi era il più simpatico, cogliona un parlamentare di Forza Italia trovato a correre a Villa Borghese, e pure Luca Bottura che è uno sveglio insiste: devi stare a casa.
Devi stare a casa è il nuovo mantra. Niente: il mondo nuovo è qui.
L’altro giorno mi ha intervistato una della BBC. Avevo fatto un post su Facebook dove sottolineavo quanto fosse idiota la restrizione su sport, corse passeggiate bicicletta, e quel post, rilanciato da una mia amica londinese, era stato visto da una sua amica giornalista che aveva letto il mio Basaglia, lei a sua volta ha avvisato la sua collega che era qui a Roma che mi ha chiamato e la sera di domenica, mezzora dopo aver finito le mie dodici ore di ospedale, con Skype facevo questa intervista dove dicevo che il governo italiano è un idiota a proibire le uscite le corse l’aria, le sigarette nei tabacchi sì l’aria nei parchi no, portare i cani a passeggiare i figli no, insomma dicevo che tra poco, in Italia, quello che dieci giorni prima è successo nelle carceri (assalto alle medicherie, detenuti morti per overdose di metadone e farmaci) succederà nelle case, ricorsi ai pronto soccorsi e alle farmacie, meno sport uguale più psicofarmaci. E’ matematico. Neppure ai miei colleghi psichiatri ciò sembra interessare, osservavo, gli psichiatri sono i primi a dire state a casa. Eppure, dovrebbero saperlo che le sofferenze dei loro pazienti potranno solo inasprirsi, con la reclusione forzata, e dovranno dargli più farmaci. E fare più ricoveri. Ma d’altra parte, pensavo, la grande maggioranza degli psichiatri da sempre già è adusa a limitare la libertà, il Trattamento Sanitario Obbligatorio per motivi psichici la grande maggioranza degli psichiatri l’ha sempre eseguito a volte senza troppo pensarci, e si è abituata, altro che extrema ratio, e dunque adesso che in Trattamento Sanitario Obbligatorio per motivi infettivi ci sono finiti tutti gli italiani, psichiatri compresi, ecco che gli psichiatri non ci badano più di tanto, non battono ciglio, e che sarà mai, pensano, starsene qualche settimana senza diritti? E quando mai i nostri pazienti hanno avuto diritti? L’importante è la nuda vita no?
Insomma, domenica sera mi ritrovo su BBC news, la mia amica londinese dice che l’avranno visto almeno quattro milioni di britannici, in questa rapida intervista dico non fate come gli italiani. Ora, gli inglesi possono uscire una volta al giorno per fare sport, la mia amica è appena uscita in bici e dice: lo vedi che Johnson è meno ottuso di Conte? E non lo so se Johnson è meno ottuso di Conte, di sicuro Johnson ha un consigliere sanitario migliore di Conte. Conte si avvale di quel Ricciardi, che ora pare voglia trasformare l’Italia in Corea (nord o sud non ho capito), ma perché non si è avvalso anche di uno psichiatra? Oppure se ne è avvalso ma di uno psichiatra incapace di prevedere quel che succederà (che sta già per succedere): le persone impazziranno a stare chiuse in casa: una settimana due o tre, dopodiché gli effetti collaterali supereranno i vantaggi. A Roma qualche giorno fa un ragazzo ha ucciso sua madre decapitandola, in Irpinia un uomo poco più che quarantenne si è impiccato appena ha capito che sua moglie si era contagiata, in Veneto un’infermiera si è annegata dopo aver temuto di aver preso il virus. Tra poco gli incarcerati senza aver commesso reato impazziranno.
E’ un mio dovere, di psichiatra anarchico (e in quanto anarchico allergico al potere, sono molto sensibile, io, ai movimenti di temperatura del potere, ho un radar, ho delle antenne molto sviluppate, là dove altri devono prima trovarsi in galera per capirlo, io lo capisco già al primo fruscìo di drone) suggerirvi delle tecniche di insubordinazione urbana al coprifuoco sanitario.
Ci pensavo poco fa, mentre correvo, libero come un uomo libero nell’immenso parco degli acquedotti. Bisogna fare così. Vestirsi con una tuta da casa, non proprio gli abiti da runner. Andare in farmacia e comprare una scatolina di Bentelan (costa poco, è un farmaco salvavita che può sempre tornare utile, e vi serve come prova che avete l’asma: è per questo motivo infatti che andate a correre). Prendere la macchina, andare in farmacia, poi dirigersi al parco e fermare l’auto a pochi metri dall’entrata. Se si viene fermati in questo tratto c’è lo scontrino che dimostra di essere stati in farmacia. Si esce dall’auto e via, più veloci della luce dentro il parco (ma vale per un bosco, una foresta, un campo sterminato; questo è un suggerimento che do se avete un ampio spazio di corsa, non se avete il parchetto ampio quanto il giardino di casa).
Parentesi ma perché insisto sulla corsa? Ma guardate che non è un vezzo. Ne va della mia salute psichica. Io medito correndo. Io correndo conseguo uno stato di coscienza alterato che mi ripaga per almeno due giorni. Correre per me è un diritto. Non mi si può proibire di correre. E’ come proibirmi di nutrirmi.
E lo stesso vale per voi. Prendere l’ora d’aria è un vostro diritto. Quell’aria è un farmaco.
Dopo un’ora, dieci dodici chilometri dunque, si torna. Questa è la fase più delicata. Perché siete sudati quindi si capisce che avete corso e il poliziotto non vedrà ragioni, l’hanno istruito così. Non sapete chi c’è nei pressi dell’auto, potrebbe esserci una pattuglia, un vigile che è stato avvisato da un perdigiorno alla finestra che controlla e informa. In ogni, caso un po’ guardinghi, badando bene che non ci siano auto poliziesche o municipalesche, si entra in macchina e via, zigzagando per le collaterali meno battute si va a casa. Ma se doveste essere fermati proprio adesso? Una banca. Stavate andando a fare bancomat. Si mette male? Sono stronzi? Sadici che non aspettavano altro che questo decreto fascista per divertirsi? Se siete medici come me allora bisogna dire che soffrite d’asma, che correre per voi è vitale altrimenti (e qui torna buono il Bentelan che avete comprato all’andata) passate la notte insonne a tossire e a ingozzarvi di cortisone.
Ma voi non siete medici come me. E questo, però, non crediate, è pure meglio. Perché a quel punto bisogna recitare l’attacco di panico: scendere dall’auto, respirare convulsamente, iperventilare, infine inginocchiarvi e abbracciare letteralmente la gamba del vigile urbano (mi raccomando, sia che siete uomo sia che siete donna, la gamba deve essere di un vigile uomo, se no la donna magari aggiunge alla multa pure la molestia), la scena dell’attaccarsi alla gamba non è farina del mio sacco, per la verità, la racconta Giuseppe Berto ne Il male oscuro.
Un’altra cosa che si potrebbe fare, ma non lo posso dire o proporre io perché sarei in conflitto di interessi, è una sorta di flash mob, di tutti i sensibili o nervosi o stressati o fobici o appanicati che privati della legittima ora d’aria si riversino tutti insieme nei pronto soccorsi d’Italia, invece che alle 18 fare quella cosa idiota di cantare Azzurro, andare in pronto soccorso: è uno dei tre comprovati motivi, d’altra parte.
Ok, per oggi è tutto. Ho scherzato. Ma voi provate a svegliarvi, che qui si mette male. E non mi riferisco al virus.

venerdì 20 aprile 2018

storia della follia e dell'antifollia in quattro ore e un quarto


A proposito di questo libro che esce a maggio, cosa dicono le prime persone a cui l'ho fatto leggere quando era ancora manoscritto in costruzione?


Paola (la mia editor incognita) dice: lo stato è assai migliore di quel che mi aspettassi dalle (tue) premesse, anche dal punto di vista della forma (mi hai detto di astenermi e mi adeguo, giusto come curiosità statistica conterei il numero di volte che hai scritto iatrogeno).
Comunque si legge tutto 
(o quasi) con piacere e rapidamente.
Capitolo 1. La tua capacità di compendiare con brio misto a sarcasmo, inutile a dirsi, è tra le migliori qualità. L’ho trovato molto interessante e con un bel ritmo ma quindici pagine appaiono pochine e anche se in seguito metti le mani avanti su possibili sciatterie, manca qualche approfondimento. Magari nell’economia complessiva del libro può anche andare, ma avrebbe meritato più spazio. Attenzione, però, che ci sono alcuni errori. Ripassaci sopra (en passant: la tua interpretazione dei postulati quantistici è a dir poco azzardata, ma per fortuna se ne accorgeranno in pochi).
Capitolo 2. Bello, quasi perfetto (tolta qualche ripetizione e qualche effetto di saldatura). Financo lirico. Tra le varie cose, un’ode all’impegno civile che m’ha a tratti emozionato (io sono emotiva, però). Anche qui avrei voluto che durasse di più e alcuni passaggi mi sono parsi frettolosi lasciando il sapore del non detto. Parrà strano, ma suona anche nuovo.
Capitolo 3. Ho perplessità sulla deriva autoreferenziale. Io la penso così, se lo chiedi a me. Altri ti diranno che è fichissimo così. Metto in blocco l’istinto di protezione e dico: decidi tu.
Premesso ciò: il patto carreriano col lettore è una ripetizione troppo smaccata (ma poi c’entra?), seppur il pezzo dell’ostia sia molto simpatico, io eviterei di ripetermi.  La parte autobiografica potresti pure sfrondarla leggermente. L’excursus sui farmaci è sempre molto interessante (talmente sicuro di sé che ormai vive di vita propria). Tuttavia tagliare (se hai necessità di bilanciare le varie sezioni) non sarebbe un delitto, considerando che c’hai scritto già un libro sopra. Tutta la parte sul libro di Rotelli è ok (e tranquillo se volevi esprimerti sull’impellenza di farsi narratori, il messaggio è passato!).
Buono l’esempio di come si crea depressione (avresti potuto persino dilungarti).
L’incipit con polemica con gli psicanalisti, non mi ha convinto fino in fondo, ma forse era solo ora di dormire.
Capitolo 4. Non so se sia giusto scrivere il manicomio digitale o no (tanto lo scriverai) ma è impossibile prescinderne (in tutte le sue declinazioni). Se la nostra conversazione (in senso largo) non si fosse interrotta di nuovo, ti avrei detto che era proprio questo l’elemento da aggredire, dopo il contemporaneo dei farmaci, nessun narratore che si rispetti può esimersi dal postcontemporaneo. Ok, evidentemente non ce n’era bisogno. Il panottico digitale, quello che hai scritto mi pare ok, incluso i piccoli episodi autobiografici, per quanto aggiungere uno sguardo professionale più approfondito oltre che filosofico, non avrebbe guastato. Mi aspetto che l’attualità si rimpolpi con i pezzi esterni.
Dovresti separare la parte successiva (quella che riparte da Sammelweis per capirsi), troppo discontinuità, non credo abbia senso tenerli nello stesso capitolo.
Epilogo. Non credo che tu voglia davvero mettere questa cosa qui, così personalistica e autoreferenziale, se così è non posso fare commenti utili (vedi sopra). Salverei solo da dove parli di parresia fino alla fine, che mi sembra più interessante.
Fossi in te aspetterei di avere una bozza del libro in toto prima di decidere se e cosa tagliare, ammesso che sia compatibile con i tempi editoriali. Comunque le premesse sono buone, anche di più.

Nicoletta (la poetessa madonna de La società dei devianti) scrive: è un gran bel libro e tu sai scrivere veramente bene! è una cavalcata avvincente, appassionata, magnetica e ben impostata. Per fortuna, poco distacco e molti corpo a corpo. Ed è vero: hai talento nel raccontare anche il pensiero degli altri, mirando subito al cuore della faccenda o alle sue contraddizioni e, vivaddio, senza annoiare. Utile l’inciso su Slavich e mi piace molto la scelta di narrare le vicende di quegli anni attraverso la tua formazione di psichiatra: è mirata, non narcisistica ed è più efficace di qualsiasi ipocrita distanza. Il finale del paragrafo sui disperati portatori di speranza mi ha emozionata, hai fatto bene a riprendere i temi de Il manicomio chimico nel terzo capitolo, altrimenti sarebbe stata una narrazione monca. Mi ha impressionato il tuo coraggio nel discorso dellagape. Bellissimo. Per due volte scrivi che avresti dato la parola ad altre persone nella seconda parte. Io però non lho visto. Cosa intendevi? Ci sono tre cose che mi convincono meno: 1. la posizione del paragrafo "Basaglia come Semmelweis". E’ utilissimo, è ben raccontato, però mi sembra fuori posto. Trovandolo dove lo metti tu, sembra di rallentare, quasi una ripetizione (che invece non è), e di tornare indietro. Lo anticiperei al capitolo precedente. 2. L’introduzione al capitolo tre: non so, la toglierei, mi pare non aggiunga niente al tuo discorso generale e che rallenti il fulmine. 3. una sciocchezzale prime tre righe del paragrafo su Carrère sembrano prese pari pari (proprio pari) da La società dei devianti. Se proprio vuoi ribardirle, proverei a cambiare formula. E niente, per il resto - ora sono io che mi ripeto - leggerti è un gran piacere. Quasi ipnotico. Hai senso del ritmo, dellironia, dellaffondo e a volte, presi dal tuo racconto, sembra perfino di ballare.

Nicoletta aggiungeieri ho letto la seconda parte. Trovo importante che tu abbia dato spazio a diverse altre voci che, a loro modo, resistono combattono e si confrontano con le angustie della psichiatria odierna. Mi piace anche la scelta che hai operato sulle persone che avevano qualcosa da dire. Questo conferma ciò che dice Rotelli, che sebbene ancora pochi non siete soli. Il taglio finale collettivo dà allora più speranza e quindi rinforza e potenzia quello che già scrivi da anni. Coagulare intorno al tuo testo altre tracce ed esperienze che gli fanno eco è un modo anche per amplificarne la portata. Mi piace la tua introduzione alla seconda parte del libro, però il primo paragrafo mi sembra totalmente mutuato dalla prefazione de La società dei devianti. E’ uno smaccato de ja vu che un po’ disturba. Tieni presente che tra le persone che prenderanno questo nuovo libro eleuthera ci saranno moltissimi e appassionati lettori della trilogia e non tutti saranno smemorati. Entusiasmante è il pezzo di Gianni Cappelletti. Il suo percorso è lucido e coerente e hai fatto bene a metterlo per primo. Il testo di Lara Bellini è prezioso e originale. Illuminante. Vien proprio voglia di cercarla in altri libri, se ne ha scritti. Efficaci Lorenza Ronzano e Donato Morena (a parte i suoi due ultimi paragrafi un po meno incisivi). Anche quella dellinfermiera Cristina Comunale è una dolorosa presa diretta sul reparto. Mi ha sorpresa la filosofa impaziente Paola Ferrari. Vorrei trovarla su fb per seguire anche i suoi post. Davvero bravissimo Francesco Andreani. Chirurgico e sintetico. Chissà che continui a scrivere. Lo sa fare. Le interviste sono tutte godibilissime, peccato che finiscano presto. Silvano Agosti è una luce! Ottima lasciugatura delle domande a Virzì. Spero sempre che riusciate a inserire anche Gifuni e Caparezza, perché se ne leggerebbero volentieri delle altre. Sono felice che tu abbia scritto un libro così e secondo me farà il botto.

Lara (esperta di jazz economia e salute mentale pur senza patente) scrive: le tue introduzioni, belle. Mi piace la casualità del lacaniano e me. Però spero non ci rimanga male a leggersi così. Gli hai parlato di persona dei motivi per cui non lo pubblichi? (Con l’età sono ancora più empatica del mio solito)L’unica cosa che mi preoccupa è che, viste le informazioni su di lui che condividi col lettore, non so se si riesca a mantenere l’anonimato. Per quel che mi riguarda, mi piace dove mi hai collocato, fra gli inventori, e come hai descritto il nostro incontro. La vita me la sono dovuta proprio inventare. Non sono mai stata paziente psichiatrica - per mia fortuna voglio aggiungere, visto lo stato attuale della psichiatria. Lo scritto che ti ho spedito è in realtà come vivo la vita, è la mia cura quotidiana. Vivo ragione e sragione e sono entrambe parti importanti di me. Ora sto leggendo gli altri scritti: bellissima la parte di Gianni Cappelletti, lo andrò a trovare di sicuro, anche perché a Londra ho un orto urbano. Quando mi hai chiesto di scrivere il pezzo mi hai fatto un regalo bellissimo, dare voce al lavoro di una vita, un lavoro che ho fatto su di me, e insieme agli altri/e. Ho dovuto inventarmi la vita ma senza una comunità amorevole è tanto difficile, no? Ora continuo a leggere gli altri scritti. Grazie di tutto Piero

Paola (ancora la mia editor clandestina) mi riscrive, dopo aver letto la seconda stesura: hai avuto una bella idea e anche ben realizzata, puoi ritenerti giustamente soddisfattoDetto ciò: non ho letto tutti i singoli contributi di inventori e impazienti, eccetto Ivan Fëdorovič e altri estratti qua e là. Ma tu certamente avrai selezionato e valutato per cui saranno tutti di livello. Spero. Comunque, a scorrere paiono ben assortiti. Le interviste invece sì, le ho lette, seppur in momenti diversi. Casomai ti interessasse ho la mia personale classifica: Silvano Agosti, Lagioia, Capovilla e in ultimo Virzì (pregiudizio forse). Comunque, ottimo lavoro. La tua breve storia della follia l’avevo passata al lanternino al primo giro (sebbene la maggior parte delle note a margine siano rimaste a me). Dando un’occhiata qua e là ho notato che hai aggirato un paio di mie considerazioni con delle avvertenze ad hoc per il lettore. Vada lo stratagemma per iatrogeno, ma con l’autoreferenzialità l’effetto è di alimentarla. Pensaci. Sempre unicamente a scopo di cronaca, ribadisco che in alcuni passaggi del terzo capitolo vedo rischio ripetitività. L’introduzione alla seconda parte “chi cura chi” ok che è un cappello, un raccordo e non ci si può attendere chissà quali vette, ma così non mi convince molto. E’ una questione di forma, s’intende, però l’ho trovato piuttosto svogliato e troppo elencatorio. Avrei scelto un taglio diverso, più letterario per trasmettere l’urgenza di questa operazioneCredo che tu possa fare di meglio con poco sforzo.
Finale Bolano/Basaglia: me lo mandasti tempo fa e sul momento m’era apparso un po’ naif (il caffè d’oltre tomba mi fa un po’ Lavazza, sarà colpa del mio lato nazional popolare) e vagamente pretenzioso.
Ma (ri)letto in coda alle interviste, l’impressione è stata assai diversa. Trovo che ci sta. Va in crescendo (lo preferisco dalla seconda paginetta in poi). Molto bello il dialogo puntellato con gli estratti da Bolano. Il lirismo del pezzo è in parte ridimensionato dalla solita esigenza di sottitolare, mettere didascalie. Se fai lo
spregiudicato, fallo fino in fondo. Abbi fiducia in te e nel lettore. E se poi non capisce so cazzi suoi.
Infine, un dettaglissimo: lascia solo L’intervista impossibile (ovvero Basaglia incontra
Bolaño, io di nascosto prendo nota). Fa più fico.

Donato (giovane psichiatra cane pure lui in chiesa) scrive: ho appena finito di leggere il libro, che te li dico a fare i complimenti! Anche se, a proposito di psichiatria digitale, ho paura che i tuoi libri stiano diventando oramai una sorta di tutorial per futuri operatori basagliani. Per fortuna la signorina anarchia ti (spero ci) salverà. Più seriamente, le riflessioni che fai mi sono servite davvero a pensare meglio, a ricapitolarmi l’anamnesi e a mettere ordine tra quelle immagini e quei pezzi sparsi di parole che si sono ammucchiati in questi anni di vita e di formazione. Ecco, ti ho fatto i complimenti. Però sono soprattutto ringraziamenti, che non vorrebbero essere banali ma, appunto, seri perchè se a volte mi viene il sospetto di delirare, posso pensare così che siamo almeno in due. E spero di più, così da diluirlo questo pensiero delirante come vorrebbero farci credere, e poter trovare una porta d’uscita a quest’era prestazionale, e direi disperata (con annessa desensorializzazione).
Va bene, non ti tedio, e in maniera stitica alla Han ti riporto alcune cose minori sul testo:
Trovo un po’ complicato il passaggio del paragrafo in cui parla Manlia Cerri, non capisco bene dove vuole arrivare;
i bambini e gli adolescenti sono diventati i migliori clienti della farmacia psichiatrica, direi anche gli anziani, ormai la totalità, dementi e non (ma forse sarebbe un di più visto che poi non ne parli);
parli del passaggio al DSM-5, mi vengono in mente quelle rare lezioni misere, più che altro dei riscaldamenti in vista dei convegni, in cui i professori universitari si esercitavano a raccontarci gli insulsi cambiamenti nosografici come se fossero una normale, naturale evoluzione della psicopatologia. E noi ce li sciroppavamo come l’aggiornamento di un software. Ma, se anche ci fosse venuto in mente di chiederne spiegazione, tacendo ci siamo risparmiati un imbarazzo reciproco. Ipse dixit.
A proposito dell’idios kosmos e degli idioti, anche Basaglia diceva di essere stato l’idiota della famiglia, (l’idiot de la famille, riprendendo Sartre nella sua ricerca sulla vita di Flaubert) almeno così dice Giannichedda nella sua introduzione all'Utopia della Realtà.

Sabrina (astrobibliotecaria): ho letto la tua storia dell’anti-follia. Mi piace come racconti le cose. Forse ho capito cos’è che stai cercando. Potrei farmi i fatti miei, hai ragione se lo pensi. Non mi offendo se me lo dici. Mi è piaciuto tanto, comunque. Utile e dilettevole, davvero. E’ proprio così. Ho appreso e mi sono divertita, divertita in modo articolato (non solo sorrisi ma emozioni svariate). Stai cercando significato, io questo avverto, ecco, adesso lo so dire. Dal primo libro tuo che ho letto. Ecco perché mi venne in mente quel libro di Teller, Niente. Mi piace questo cercare significato, lo trovo palpitante. Tutum palpita, si sente.
Sì però un po’ mi vengono anche i nervi, perché hai scelto di fare lo psichiatra? Non mi convinci quando parli di questo. Che mestiere ti credevi che fosse? Quale immagine ti ha chiamato?
Le rispondo: Finché non ci sei dentro non sai ciò che ti aspetta.
Questo l’ho capito. Ma un’aspettativa tua, ve bene smentita poi dall’esperienza, un’aspettativa tua, come può avercela il bambino che vuole fare l’astronauta o il postino, dovevi avercela anche tu.
Le rispondo: Forse i tarocchi potrebbero aiutare, sono stato soggiogato dalla carta del matto, dopo la quale è uscita quella dell’alchimista e poi dello scrittore.
E lei: Risposta estetica.
E lo so, a te non la si fa.

Ecco. Prima del 13 maggio esce questo libro.