Anche oggi, disubbidendo al
divieto, sono andato a correre. Già mi vedo i miei colleghi psichiatri e
psicologi (soprattutto le donne, non ho capito perché) sbuffare: aridaje co’
‘sta corsa. Una l’ho dovuta bannare perché dice che strumentalizzavo la morte
del runner e non me la sono sentita di mandarla a quel paese col rischio di
essere estromesso dal panottico digitale. Un’altra pure l’ho bannata perché mi
ha detto altro che Basaglia io sarei Lombroso, che penso solo a correre. Ora
aspetto la prossima maestrina che mi fa la ramanzina perché #iononrestoincasa#.
Ho corso dieci chilometri precisi dalle 11 a mezzogiorno. Alle 14 ero in
ospedale. Mi sentivo bene. Pronto ad affrontare l’eventualità del contagio.
Perché ciò che gli ideatori di questa assurda quarantena di massa non hanno
capito (mi domando chi sia se ci sia un consulente psichiatra affianco a
Ricciardi, nel consigliare il modo migliore per affrontare il contagio) è che
tutto si gioca nell’incontro tra due organismi: il virus e l’uomo. La
possibilità di sviluppare l’infezione nelle sue forme più gravi, la polmonite
interstiziale, e di morirne, dipende da una combinazione ben precisa: che la
carica virale sia alta, e il sistema immunitario della persona infettata sia
bassa. Tutto qua. Una persona che entra in contatto con una carica virale alta,
ma che ha buone difese, molto probabilmente se la cava. Una persona che entra
in contatto con una carica bassa, anche con basse difese se la può cavare. Una
persona con buone difese immunitarie, se incontra una carica virale bassa,
magari nemmeno se ne accorge (la gran fetta degli asintomatici, i cosiddetti
portatori sani). Le persone che incontrano una carica elevata, e lo fanno
quando sono deboli, col sistema immunitario compromesso da altre patologie,
dall’età molto avanzata, dallo stress, da un surmenage lavorativo, dal poco
sonno, dall’impossibilità di controbilanciare il lavoro con qualche ora di
piacere (passeggiata, corsa, andare in bici), quelle persone, più facilmente,
vengono sopraffatte dall’infezione, e muoiono. Mi colpisce, essendo un medico,
l’enormità dei medici morti sul campo, una quarantina, finora. Due infermiere
in prima linea nel nord Italia si sono suicidate. Ieri mi domandavo come fosse
possibile. Ecco perché. Sono stati mandati al fronte senza protezioni. Fino a
un paio di settimane fa, a cominciare da me, era difficile per gli operatori
sanitari avere le mascherine. Moltissimi, in Lombardia ma non solo, sono stati
costretti a lavorare anche quando sintomatici, febbrili. Molti medici di
famiglia esposti, mandati allo sbaraglio. Esercitare la professione di medico,
di infermiere, essere così esposti, non è come restare a casa a fare il
telelavoro. Molti medici sono stati costretti a fare turni massacranti di
dodici ore al giorno per molti giorni. In queste condizioni (è
psicosomatica, è psicoimmunologia, non ci vuole un genio per capirlo) è più
facile, se entri in contatto col virus, con una carica virale alta, visto che
visiti decine di persone ogni giorno, ammalarsi e ammalarsi male. Tutti quanti
continuano a ripetere #iostoacasa# come pappagalli, non sanno che chi fa lavori
di tale esposizione, il giorno dopo, non solo dovrebbero avere la giornata di
riposo o almeno mezza giornata di riposo, ma non gli fa bene restare confinato in
casa. Ha bisogno di prendere aria. Come fece, qualche giorno fa, il medico
rianimatore di Napoli, che correva sotto casa, e l’ottusità delle restrizioni
del governatore campano, insieme all’ottusità degli agenti municipali esecutori
pedissequi delle restrizioni, hanno fatto sì che un medico in prima linea sia
stato messo, obbligatoriamente, in quarantena. Ora chi ci va a lavorare in
rianimazione? La pattuglia dei municipali che l’ha quarantenato?
Ma io dico, dopo decenni di
discorsi sulla psicosomatica, sul rapporto tra psiche, sistema immunitario e
malattie, davvero si crede che per sconfiggere un’epidemia basti solo
seppellirsi in casa?
La maggior parte degli
psichiatri e psicologi questo non sembra averlo capito. Sono convinti che poi,
per riparare i danni, bastino un po’ di pilloline e quattro chiacchiere, sì la
cosiddetta psicoterapia, per aggiustare tutto.
Il comune di Roma poi, questa misera
amministrazione di - come li hanno chiamati? - scappati di casa, presieduta da
un’avvocata che è sembrata essere più un prestanome che la vera sindaca della città (così come il governo della nazione è presieduto da
un avvocato che fino a pochi mesi fa era sotto tutela di Rocco Casalino e ora gioca a fare Winston Churchill)
lancia la squallida campagna della delazione. Chiama al Comune!, se vedi l’assembramento
o chiunque disattenda le restrizioni, chiamaci, perché tre soli sono i motivi
che hai per uscire: lavoro salute e necessità.
Dal ventennio fascista non
eravamo in uno stato di coprifuoco.
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