la società dei devianti

domenica 9 novembre 2014

Gulliver non era uno normale (ovvero vita e morte del maestro anarchico Mastrogiovanni)


Dicono che Franco Mastrogiovanni non era uno normale. Dicono che già alla nascita pesava più di cinque chili e misurava oltre sessanta centimetri. Da bambino, anche se non abbiamo notizie circostanziate, si dice che avesse un po’ troppi grilli per la testa. Da adolescente, poi, manifestò del tutto la sua anormalità iniziando ben presto a professarsi anarchico. Ma Lombroso ce l’ha insegnato, con la sua ineguagliata tassonomia (nessun altro li ha descritti così bene): l’anarchico non è uno normale!
Ora, è ovvio che, in contumacia, non lo possiamo desumere che tipo di anarchico fosse il Mastrogiovanni, se un anarchico pazzo, come Giovanni Passannante, o un anarchico criminale, come Ravachol, o un anarchico passionario, come Sante Geronimo Caserio, la testa calda che pugnalò il fegato di Sadi Carnot con un coltellino dal manico rosso e nero. Ecco, forse potrebbe rassomigliare, per il fisico epilettoide, per le mani gigantesche e per un carattere forse gliscroide che l’avrà reso precocemente ossesso per l’anarchia e i tiranni, e per quella sua faccia buona, forse Mastrogiovanni potrebbe rassomigliare proprio al Caserio, non certo al tipo più pericoloso di questa categoria, non certo all’anarchico anarchico: il tipo Bresci. No, come Gaetano Bresci, l’uccisore di re, proprio no.
Ora, quest’uomo cresce in eccesso. Cresce in altezza, che sarebbe il male minore, seppure supera, non ancora sedicenne, addirittura il metro e novanta. Ma proporzionalmente alla statura gli cresce pure quel sentimento pernicioso detto iperestesia. Perché, chiarisce il Lombroso, questo è il sentimento patologico che rende anarchico un anarchico: l’iperestesia. Ovvero un eccesso d’onestà.
Dunque, quest’uomo si fissa con una strana storia di cinque calabresi uccisi in un incidente stradale due anni prima. Perché pure quei cinque erano anormali come lui. Deliranti, gente che si faceva erronee convinzioni nella testa e voleva dimostrare al mondo che aveva ragione. Quei cinque indagavano su un treno deragliato dalle parti di Gioia Tauro. E dove sarebbe il fatto straordinario? I treni deragliano, delle volte. Invece quei cinque sostenevano di avere le prove che il deragliamento non era stato accidentale. Ma guarda caso pure la loro macchina, sull’autostrada del sole, all’altezza della villa di un fascista, tale Valerio Borghese, pure la loro macchina impazzisce, e si scontra col TIR di un camionista, pure lui un fascista (altra coincidenza).
Il Mastrogiovanni un giorno stava passeggiando sul lungomare di Salerno, e discorreva con due amici, e si stavano dicendo proprio questo, che non poteva essere normale quell’incidente d’autostrada capitato a quei cinque, due anni prima. Quando ecco due giovani fascisti gli si parano davanti. Ora, se il Mastrogiovanni fosse stato normale, non si sarebbe fatto trovare, in giro, di sera, in compagnia di quei due, e se fosse stato normale, alto come tutti un metro e settanta, non avrebbe preso la coltellata alla gamba, perché i fascisti magari lo avrebbero preso solo a pugni, invece a un bestione alto più di un metro e novanta lo devi per forza accoltellare, anche se lo puoi infilzare solo a una gamba, perché più sopra non ci arrivi.
Uno così alto, poi, se tu carabiniere lo arresti, perché nella colluttazione il fascista col coltello è morto, lo devi per forza trattare male, perché ha tutte le caratteristiche del mostro, deforme, omicida, e non deve passarla liscia. Se poi un giudice lo assolve, il gigante rimane sempre il complice di un assassino, resta sempre lombrosianamente anarchico, e non smetterà mai d’essere un pericolo per la società.
Se poi il Mastrogiovanni inizia a ricevere telefonate minatorie, minacce, dispetti, uno normale non ci darebbe importanza, perché saprebbe di essere nel giusto, di essere innocente. Invece il Mastrogiovanni scappa. Emigra. Va al nord. Dove, non essendo conosciuto, si ricicla come insegnante elementare! Ma i gendarmi campani informano i colleghi bergamaschi che l’insegnante elementare gigantesco è un noto sovversivo, forse omicida, per cui iniziano a tenerlo d’occhio anche al nord.
Finché, quarantacinquenne, si risolve a tornarsene al sud, al suo paese, si pensava che si fossero scordati di lui. E invece si ricordavano benissimo. D’altra parte, bisogna pur tutelarla la società dal pericolo di uno come lui. Dunque un giorno riceve una multa, e lui mica abbozza, come ogni normale cittadino, no, osa protestare, forse manda perfino al diavolo un vigile. E che dovevano fare con un recidivo? Non dovevano arrestarlo? Lui ovviamente (ovviamente per uno non normale, perché qualunque altro cittadino avrebbe indossato le manette con civiltà, tranquillo della sua innocenza) si oppone. Dicono perfino che viene picchiato dagli agenti. Finisce agli arresti domiciliari. Dove chi viene incaricato di controllare la sua permanenza a domicilio sono gli stessi gendarmi che l’hanno picchiato.
A questo punto raggiunge lo zenit della sua abnorme esistenza: inizia a sentirsi perseguitato. Da chi? Dagli uomini in divisa. Pare che appena ne incrocia uno cambi strada. E (forse) inizia a prendere dei farmaci, perché se sei un paranoico non puoi fare a meno dei farmaci.
Sul finire del luglio 2009, chissà in che stato alterato si trovava, riesce a tamponare ben quattro macchine di fila. Come avrà fatto, visto che la sua auto è illesa, non si sa. Due medici si decidono a fargli il Trattamento Sanitario Obbligatorio, uno lo propone, l’altro lo convalida, lo inviano al sindaco del luogo, e il sindaco non s’interroga, lui che è la massima autorità sanitaria locale, se quel provvedimento di ricovero coatto è giusto oppure no, e non lo fa perché nei paesi le persone si conoscono tutte, in una grande città poteva pure sfuggirgli, ma lì al paese si sapeva benissimo che Franco Mastrogiovanni è nato e cresciuto, e morirà, anormale, e allora il sindaco non impugna il TSO, ma convoca i vigili urbani, e per sicurezza, essendo il Mastrogiovanni un noto pericolosissimo sovvertitore, forse omicida, per troppo tempo a pie’ libero, chiama pure una dozzina di carabinieri.
Ora, uno normale, vedendo arrivare questo esercito di tutori dell’ordine si consegnerebbe fiducioso alle loro cure, ma, come ho avuto modo di spiegare, il Mastrogiovanni non è normale, perciò fugge. E la cosa più bislacca è che la fuga si conclude a mare, per cui il sindaco cos’altro poteva fare se non allertare una motovedetta, che molto solertemente fa allontanare i bagnanti, avvertendoli che sono impegnati in una caccia all’uomo?
Dispiace più che altro per quei due o tre fanciulli che sono in spiaggia con i genitori e i nonni, che a un certo punto vedono il loro maestro gigantesco, a pancia sotto, schiacciato da venti persone, faccia a terra, ammanettato, portato in ospedale, solo per loro dispiace.
La prova decisiva che non è normale è che quando lo portano in ospedale, e lo legano mani e piedi (lo legano per il suo bene, anche se lui dorme tranquillo), e non gli danno da mangiare per paura che si strozzi, lui dopo soli quattro giorni di contenzione decide di sua sponte di morire, cosa che di solito non accade con gli altri legati, e dire che se ne legano a migliaia negli ospedali italiani. E come mai nessuno è mai morto e Franco Mastrogiovanni sì? Perché non era normale. Ecco perché.
Non era normale. E c’è chi è sicuro che l’ha fatto apposta a morire, perché nella sua camera c’erano le telecamere a circuito chiuso che registravano tutto, e lui voleva metterli nei guai, e la sua è stata una morte politica, una specie di suicidio altruistico, un sacrificio fatto in nome di tutti i malati legati del mondo, per mettere nei guai quei poveri medici infermieri sindaci e gendarmi lillipuziani, l’ha fatto apposta a morire, questa specie di Gulliver maledetto.
****
Una settimana fa ho ricoverato un gigante. Ancora più alto del povero maestro di Vallo della Lucania. A occhio e croce più di due metri. Due giorni dopo è stato legato.
Ieri il povero gigante buono mi ha fatto una tenerezza. Viene da me, guardandomi dalla sommità di quei due metri di smarrimento, e mi dice: dottore, lo sa che mi hanno tenuto tre giorni legato a letto? Lo so gigante, lo so. Ma io l’avevo visto solo in televisione, mi fa, nel film La ragazza che giocava col fuoco, non credevo che queste cose capitassero davvero. Lo so gigante, lo so. E’ che tu sei troppo gigante, e quando volevi uscire da questa porta chiusa si sono messi paura, e il nostro psichiatra codardo ha pensato che era meglio tenerti legato. Veramente, non gli ho detto proprio così. Gli ho detto: vedi, io ti avevo ricoverato, ed era andato tutto bene, ti eri fidato, avevi preso un po’ di gocce ed eri andato a letto. Poi però ti sei svegliato di notte, e di nuovo volevi andar via, ma avevi le voci che ti dicevano di ucciderti, e non potevi andar via. Allora si son messi di santa pazienza il medico e soprattutto quell’infermiere napoletano (ma non tutti hanno la sua pazienza, specialmente di notte) e dopo due ore ti ha convinto a tornare a letto, e tu te ne sei andato a dormire. Ma quando il pomeriggio successivo hai detto di nuovo che te ne volevi andare e hai preso a sbattere sulla porta chiusa, lì ci voleva di nuovo quell’infermiere paziente, invece c’erano quelli che tutta questa pazienza non ce l’hanno, e hanno chiamato il medico, ma pure lui era tanto impegnato, stava in stanza a leggere, ed è uscito svogliato e rotto di scatole, perché la tua non collaborazione lo ha distratto dalla sua meditazione, e allora ha deciso che non si poteva fare altro che legarti, perché tu eri allucinato e le voci ti dicevano di ucciderti. No, di nuovo non ho detto così. Ho detto: guarda, chi ti ha legato non l’ha fatto perché è sadico, o perché ti voleva male, ma perché in quel momento non si poteva far altro … ho mentito al posto del mio collega.
Povero gigante buono, che non sai che essere due metri ti fa rischiare più di un normolineo, di essere legato. E considerati fortunato che non hai fatto la fine di quell’altro gigante, il disgraziato maestro di Vallo della Lucania.
La realtà, gigante, è che siamo commessi. Siamo meri esecutori dei crimini in tempo di pace. Perché fuori facciamo i comunisti, i progressisti, ci iscriviamo ad Amnesty International, votiamo Sinistra Ecologia e Libertà piuttosto che il Partito Democratico, compriamo la Repubblica, il manifesto, L’unità o Il fatto quotidiano, siamo contro i leghisti che vogliono gli stranieri fora da le bal. Ma quando siamo con il camice, dentro al nostro ospedale, dentro al nostro reparto psichiatrico, diventiamo carnefici come il potere ci vuole. E leghiamo la gente. E la chiudiamo dentro. E la sorvegliamo e la puniamo. Fora da le bal allo strano, al diverso, all’alienato. Nella nostra pratica professionale non siamo più comunisti, progressisti, democratici, tolleranti, ma perfetti fascisti.
(estratto da La fabbrica della cura mentale, elèuthera 2013)

http://www.news-forumsalutementale.it/gulliver-non-era-uno-normale-ovvero-vita-e-morte-del-maestro-anarchico-mastrogiovanni/

martedì 4 novembre 2014

è per questo che io disprezzo voi

molti coscienziosi dottori, magari psichiatri, in questi giorni si stanno appassionando nei social a difendere la propria categoria, ovvero i poveri medici che non hanno fatto morire il tossico cucchi col fegato da ottantenne, anzi, si pensi un po', l'hanno fatto perfino bere dopo le percosse. e bravi. e bravi.
ma io vi conosco, mascherine!
siete gli stessi che nei reparti psichiatrici dove lavorate legate centinaia di persone ogni anno, per molti giorni, al letto, in nome della vostra scienza. e dunque siete abituati alle eccezioni, allo stato di necessità, perchè dai tossici, dai matti, dai delinquenti, da tutti i devianti insomma, ci si deve pur difendere in qualche modo, o no?
e gli date pure da bere, quando sono legati al letto. e a volte gli fate sentire perfino la musica, non potete negarlo, perchè io vi ho visti, io c'ero. e non potete negare neppure che in fondo voi i tossici, i matti, i vecchi, i devianti insomma, li disprezzate, li disprezzate profondamente. ed è per questo che siete inadatti al mestiere che avete scelto. ed è per questo che io disprezzo voi.

martedì 14 ottobre 2014

non ho bisogno di stare tranquillo


Non ho bisogno di stare tranquillo.

Errico Malatesta

La fabbrica della cura mentale

Mario Bonanno - Sololibri

Avete presente quei pamphlet di estrazione antipsichiatrica che a un certo punto andavano di moda negli anni Settanta? Beh, scordateveli, perché “La fabbrica della cura mentale. Diario di uno psichiatra riluttante” (Elèuthera, 2013) è tutto fuorché un manifesto ideologico anti-qualcosa, piuttosto un saggio “narrativo” sulla scorta del pensiero vetero-basagliano, una specie di auto-fiction di taglio esistenziale, satura com’è di riflessioni, di umanità ferita, di rimandi filosofici, ma anche di humour, malinconia e un tantinello – va beh – di spirito di denuncia e mal de vivre, che per chi deve vedersela ogni giorno con le derive della malattia mentale può leggersi come burnout, tra i rischi del mestiere di psichiatra.
Piero Cipriano è psichiatra dalla cima dei capelli fino alla punta dei piedi, se mi spiego. Ciò non toglie che nella descrizione degli SPDC (i Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura che dalla Legge 180 in poi hanno sostituito i manicomi) a tratti ci vada duro, ma senza inventare nulla, perché un ricovero in SPDC non è minimamente paragonabile a un soggiorno in un resort cinque stelle, non trovate? L’ottimo Cipriano (la sua scrittura - specie nei suoi tratti più narrativi - letteralmente "zampilla") annota senza sottacere nulla delle ombre che gravano sulle strutture ospedaliere per pazienti psichiatrici (le uniche strutture ospedaliere a porte chiuse) e tuttavia - l’ho scritto prima – questo è tutt’altro che un testo rancoroso e non è nemmeno livido, e neanche apocalittico, della serie declino e morte della psichiatria al tempo degli SPDC: sulla scorta dirompente delle idee di Basaglia, ciò che propone tra le righe Piero Cipriano è un ritorno alla centralità del sofferente psichico (mica la malattia ne annulla lo statuto di essere umano, no?), di pari passo a un approccio più “umile” alla professione medica, soprattutto in un ambito, sotto molti aspetti aleatorio, com’è l’ambito della medicina psichiatrica (aldilà della nosografia, davvero qualcuno può dire di sapere con certezza in cosa “consista” la schizofrenia? qual è il suo senso recondito?).
In altre parole, "La fabbrica della salute mentale" è un libro meticcio di toni e di generi, che non le manda certo a dire sulla pratica diffusa della contenzione fisica, su quella delle scorciatoie farmacologiche, sul disincanto o sull’indifferenza di molti operatori, e però senza malagrazia, piuttosto con sgomento, rivoluzionaria saggezza diogeniana (il filosofo con la lanterna che "cercava l’uomo"). Un libro di teoria e prassi etnopsichiatrica in forma di quasi-romanzo, che si appiglia a Cioran e a De Andrè, richiama il mito di Sisifo in accezione camusiana, Michel Onfray della destrutturazione delle tesi freudiane, si mette e rimette in discussione, morde, fugge, accarezza, fa sorridere e indignare, passando dall’autobiografia al corollario toccante di storie minime in transito o precipitate per sempre nel giogo senza fondo del "circuito" psichiatrico. Una lettura tesa, diretta, agevole, per tutti, anche sul piano della forma tra le migliori sull’argomento che mi sia capitato di leggere.

I manicomi non ci sono più ma i matti sono sempre da legare

Giuseppe Ceretti - Il Sole 24 Ore

Hai voglia di dire che i manicomi non ci sono più, il povero Basaglia si sarà rivoltato un milione di volte nella tomba. Parola di uno psichiatra riluttante, al secolo Piero Cipriano, che ha lavorato in vari dipartimenti di salute mentale e da alcuni anni lavora in una SPDC di Roma. Quattro lettere che stanno per Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, reparti collocati nell'ospedale generale. Qui sono ricoverati gli affetti da mal mentale dopo che nel 1978 la legge 180 ha abolito i manicomi.
Cipriano per età (è nato nel 1968) non ha conosciuto quei campi di concentramento del malato mentale che erano i manicomi, ma conosce assai bene, per lavorarci giorno e notte, gli SPDC : "Mi ricordano una fabbrica" dice e lì per lì pare un grande cambiamento e in positivo. E certo lo è, almeno in apparenza-Ma Cipriano non a caso è riluttante, ovvero, come ci dice il vocabolario, "uno scarsamente disposto a cedere, concedere, acconsentire". 
Piuttosto la sua esperienza lo convince che in quei luoghi sta rinascendo, sotto altre forme, una rinnovata cultura manicomiale. Il malato è una macchina biologica rotta che va aggiustata non con le parole, ma con il farmaco e se il farmaco non basta ci sono le fasce o le terapie elettriche. E le cure tranquille? Nel silenzio costoso di studi privati.
Una convinzione che è maturata dall'esperienza sul campo e si è tradotta in questo diario di reparto dentro "la fabbrica della cura mentale". Cipriano, lo si avverte sin dalle prime righe, è uomo dalla notevole temperatura interiore. A dispetto della conclamata volontà di darsi a più proficue peregrinazioni nel mondo, nel suo lavoro ci mette passione, competenza e sdegno, anche dietro gli apparenti segni di cinismo: "Che ci faccio qui?".

L'incipit del diario ha l'effetto di un pugno nello stomaco ("prendila tienila legala" è l'eloquente titolo di una notte da incubo) seguito dal perfido resoconto del riluttante io narrante alle prese con i colleghi: il sarcastico, la fredda, la disillusa, la suorina, il fatalista, una galleria di personaggi che girano per i reparti in coda al grande timoniere: "Giro finito. Fino al giorno dopo i pazienti ingoieranno pasticche, cibo, nicotina e televisione".
Piero Cipriano ci avverte che in questa fabbrica il dogma della reclusione della follia, con il conseguente abuso dei farmaci, è alimentato dagli interessi di multinazionali che hanno creato schiere di sostenitori pronti a dimostrare ch in Italia i manicomi non sono stati chiusi "grazie ai neurolettici tipici e ora atipici che avrebbero reso più docili i malati". I farmaci, dice Cipriano, spesso "servono a sedare più che il malato l'ansia dello psichiatra".
C'è poi la questione che più d'ogni altra "fa venire il sangue amaro" all'autore: mai nei libri di psichiatria si parla di legare la gente, mai se ne parla, negli anni di specializzazione: "Ma allora - si chiede - perché è una pratica tanto diffusa, che coinvolge l'80% degli SPDC d'Italia? E' una questione di etica e di cultura: altro che reclamare più operatori, occorre cambiar loro la testa".
La testa di Cipriano è ostinata, cocciuta, piena di sogni ma bastano le poche righe del capitolo di una notte al pronto soccorso per capire di che pasta sono fatti questi sogni. Forse il meglio di questa testimonianza è in ciò che non vi abbiamo anticipato, nelle tracce di romanzo, di saggio, di reportage, di manuale di sopravvivenza.
Non a caso Cipriano chiede aiuto alle parole di Goethe: "Ciò che qui ho narrato è realmente accaduto, ma niente è accaduto come qui ho narrato".

LA SOLITUDINE DEI MODERNI MANICOMI



Marco Neirotti - La Stampa

“Stavolta ti tengo legata al letto un mese”.  “Qui nessuno vuole farle male, voglio solo capire come mai l’hanno portata in ospedale”. Due atteggiamenti si scontrano di fronte all’enigma della malattia mentale: quello dell’arcana paura e cieca reazione e quello del pacato comprendere. Era così prima di Franco Basaglia, è così dopo una rivoluzione radicale nel bene e nelle radicalizzazione di comodo, tradita dalla fretta sommaria della superficialità politica.
Fasce di contenzione e dialogo, colate di psicofarmaci e terapia della parola si spintonano nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, i “repartini” ospedalieri, solitari avamposti della lotta alla follia, dove si affrontano le fasi acute dei disturbi, talora violente. Tra episodi della propria quotidianità e analisi degli studi sulla mente, sul sistema nervoso, sui farmaci, percorre i repartini Piero Cipriano in La fabbrica della cura mentale (Elèuthera edizioni), “diario di uno psichiatra riluttante”.
Troppo giovane per aver direttamente incontrato Basaglia ma non poer averne assimilato gli ideali di restituzione della dignità del malato, Cipriano attraversa come stanze di un castello kafkiano i manicomietti-lampo dove spesso – a fronte di esempi di abnegazione ed efficienza – sembra si sia abdicato al principio fondamentale – la sintonia con il sofferente – e ci si ritrovi, talora proprio malgrado, in un dispensario di sedativi e anttipsicotici, recuperando e rispolverando dalle antiche strutture cinghie per irriducibili e trasferimenti in case di cura dotate di apparecchi per l’elettroshock, quando si ritengano vani gli altri strumenti.
L’amarezza di queste pagine nasce dal constatare che se prima si finiva anche per una sciocchezza in lager perenni, oggi si transita in linee di montaggio dove in pochi giorni si coprono le falle più evidenti e si restituiscono al mondo, confidando nei Servizi di salute mentale del territorio, anime soltanto in superficie placate, lasciando inalterata, salvo realtà felici, la solitudine di malati, parenti, operatori stessi.

giovedì 13 febbraio 2014

scrivendo viviamo



un giorno una donna che non era una donna come tutte le altre perché era una madonna, anche se non era la madonna numero uno ma la decima madonna, vabbe’ ma che vuol dire, pur sempre una madonna messianica, fatta madonna per l’esattezza dal messia luciano d, che d secondo me sta per dio, ma per pudore non l’ha voluto dire, perché è stato di sicuro un messia modesto e umile questo luciano che per cinquant’anni ha abitato i manicomi, e quale luogo è stato, in questi ultimi due secoli, quale luogo è stato più adatto, per un messia, se non un manicomio?, credete forse che se cristo fosse vissuto in questi ultimi secoli non sarebbe finito in manicomio?, il manicomio è il luogo perfetto per gli ultimi che non saranno mai primi, insomma mi scuso per la digressione ma volevo dire che questa donna un po’ madonna mi scrive e mi invia il suo libro, libro che lei, per modestia di madonna, e solo decima madonna per di più, chiama ogni volta libretto, e con dentro una cartolina da usare come segnalibro dove c’è una donna trapezista in abito da sera, o da ballerina. Insomma un libro raro che mi arriva direttamente dall’autrice che l’ha scritto, che è pure madonna e che racconta gli ultimi anni di vita del suo messia, messia che per umiltà non lo dice di essere dio ma lo lascia intendere. allora l’ho letto, perché un libro che ti arriva dalla decima madonna anche se tu sei tra i primi agnostici e tra gli ultimi alienisti della terra non puoi non leggerlo, e poche pagine per sera, perché un libretto è piccolo, e finisce presto, e allora se finiva presto il libretto poi finiva presto pure la vita del messia luciano d, e finiva presto la scrittura evangelica della sua madonna, decima madonna. e ora che l’ho letto penso a quanti messia pure io ho conosciuto e dimenticato, e santi, e profeti, e cristi e anticristi, e diavoli e streghe, ma la pazienza di scrivere la vita di tutti questi esseri superiori non ce l’ho mai avuta. forse perché un alienista dopo un po’ che sente le storie la pazienza di raccontarle poi la perde. e ripenso al finale del libretto, quando luciano d ammette che, dopo una vita trascorsa fuori casa, passata negli istituti dell’anormalità, sarebbe bello tornare a casa (“è da quando avevo vent’anni che vivo con estranei. ho settantotto anni. è ora che io torni a casa mia”). e allora è chiaro che negli ultimi anni della sua vita casa per lui è stata la sua madonna, la decima madonna, nicoletta, l’autrice del libro evangelico del messia luciano d, che forse è dio, ma non lo sapremo mai.

lunedì 10 febbraio 2014


intervista a Piero Cipriano di Laura Antonella Carli


Nel 1978 la legge Basaglia metteva fine, in Italia, alla storia secolare e crudele dei manicomi. Trentacinque anni dopo uno psichiatra pubblica con Elèuthera un libro (La fabbrica della cura mentale) in cui fa i conti con quel che si è fatto e con quel che non si è voluto fare.
In sottofondo un auspicio e un impegno: chiudere davvero i manicomi si può.

Se il manicomio ricordava un campo di concentramento, l'attuale Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura ricorda una fabbrica, con i suoi tecnici specializzati (il personale) e le sue macchine biologiche guaste (i pazienti). Con La fabbrica della cura mentale Piero Cipriano, psichiatra e psicoterapeuta romano, ci catapulta nella realtà scomoda dei reparti psichiatrici ospedalieri. A farci da guida è una sorta di alter ego dell'autore, uno psichiatra come lui, come lui basagliano convinto e come lui riluttante, in bilico tra il compromesso e l'aperta ostilità nei confronti di un'istituzione che ha tradito la propria missione e di colleghi che alle parole preferiscono i farmaci. Il suo personaggio ricorda un po' il medico di Fabrizio De André (o di Edgar Lee Masters), quello che voleva “guarire i ciliegi”. Si è avvicinato alla psichiatria per rendersi utile e si ritrova e veder legare i malati. Già, perché non tutti sanno che ancora oggi i matti si legano. In media un paziente su dieci. Una cosa, ci avverte Cipriano, che negli anni della specializzazione si guardano bene dal dirti.
A trentacinque anni dall'approvazione della legge 180, la celebre legge Basaglia che ha decretato la fine dell'istituzione manicomiale, questo libro, in bilico tra il saggio, il reportage e l'opera romanzesca, ci dice chiaramente e senza mezze misure che il manicomio non è mai stato abolito: “è un mostro che si è trasformato, che è stato geneticamente modificato” e che sopravvive attraverso le pratiche di contenzione, l'ignavia dei suoi tecnici e il silenzio imbarazzato che avvolge ancora oggi la malattia mentale. E pensare che Franco Basaglia lo diceva già qualche decennio fa: “Aprire l'Istituzione non è aprire una porta, ma la nostra testa di fronte a “questo” malato...”.
 Iniziamo dalla struttura del libro, che è sicuramente particolare: non è un romanzo, non è un reportage, non è un saggio: “ciò che hai narrato è realmente accaduto, però niente è accaduto come hai narrato”. Sotto la dicitura “diario di uno psichiatra riluttante” il libro raccoglie contributi di natura diversa: un racconto, appunti per un romanzo, capitoli dal carattere più saggistico. Come ha preso forma il progetto di coesione?
«Io, tutto sommato, prediligo la forma narrativa alla forma saggio. Ho pubblicato un romanzo breve e ne ho scritti altri (che rimangono per ora nel cassetto), in cui ho sempre cercato una forma stilisticamente ibrida, un po' quella del romanzo saggio (Julian Barnes, per fare il primo esempio che mi viene in mente, o Antonio Pascale, per restare in Italia).
In questo libro ho semplicemente montato dei pezzi scritti in questi ultimi anni, pezzi scritti forse per sopravvivere a questo mestiere, il cui tema dunque è la difficoltà di uno psichiatra ottimista costretto a lavorare con psichiatri pessimisti.
È anche questo il motivo per cui i registri narrativi sono così diversi: auto-fiction, saggio, reportage, diario, pamphlet, racconto.»

Le critiche principali che muovi al sistema psichiatrico sono due, entrambe metodologiche: quello che tu chiami “furore nosografico” – ovvero la mania diagnostica, l'ansia di classificare, di dare un'etichetta al malato – e, naturalmente, le pratiche di contenzione. Sono due facce della stessa medaglia?
«Direi di sì. Nei SPDC (Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura), i luoghi che in Italia sono dedicati a risolvere la crisi psichiatrica, ormai prevale una vera e propria ossessione, fissazione direi, per la diagnosi. Ormai, quasi sempre e dovunque, i tecnici psichiatrici dimenticano che fondamentale è occuparsi dei vissuti, della relazione, e dimenticano che la legge 180 è figlia del pensiero di Franco Basaglia, che suggerì di mettere tra parentesi la malattia mentale (e quindi la diagnosi) per occuparsi del malato, e si accaniscono nell'incasellamento nosografico di quell'esistenza. La diagnosi in medicina è importante, non dico di no, essa significa conoscere attraverso, ma in psichiatria dobbiamo aver chiaro che la diagnosi è un mero costrutto semantico, grammaticale; è onomastica (come diceva il mio relatore di tesi, Alberto Gaston), giacché i disturbi cui gli americani dell'American Psychiatric Association, redattori dei DSM (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), hanno dato un nome, non possono definirsi malattie (sono privi dei correlati eziopatogenetici e anatomopatologici che le malattie devono avere), per cui dovremmo togliere enfasi al potere della diagnosi. Che chiamare schizofrenico una persona, o bipolare o borderline, poi gli struttura davvero quell'identità.
La diagnosi in psichiatria, dunque, è un modo brutale per annullare una biografia con una semplice etichetta. Dopodiché lo schizofrenico sarà uguale a tutti gli altri schizofrenici. Incomprensibile e inguaribile come tutti gli schizofrenici. E non ricordo chi ha affermato che la diagnosi sta alla sofferenza come la burocrazia alla società.
Per cui la diagnosi psichiatrica credo, tutto sommato, che sia una semplificazione, un'operazione riduzionistica con cui costringere una storia in un nome. Un fallimento della iatreia della psiche (l'arte di curare l'anima). Invece la contenzione, cioè l'immobilizzazione di un corpo umano con cui lo psichiatra non è capace di relazionarsi, è un fallimento dieci, cento, mille volte più eclatante. Quello è un fallimento non solo sul piano medico, ma sul piano umano.»

Nel libro si batte meno su questo aspetto, ma emerge chiara anche la critica foucaultiana al concetto stesso di detenzione, alla “singolare pretesa” di rinchiudere per curare.
«Foucault scrive, nella sua Storia della follia, che la psichiatria nasce, nell'epoca dei lumi e della borghesia, con la sostituzione del concetto di norma a quello di legge. In quest'epoca ha inizio la segregazione della devianza, dei non normali, e precisamente nel 1676, scrive il filosofo francese, quando un editto prescrisse di ospitare, nel Grand Hospital General di Parigi, tutti i mentecatti, sfaccendati, delinquenti, stravaganti, alcolizzati, eccetera. Ma, sempre Foucault, ci ricorda che è Philippe Pinel, un secolo più tardi, nel 1793, che separando i folli dai delinquenti inventa ufficialmente il manicomio. E nel manicomio di Pinel la reclusione, e l'isolamento, avevano senso per due ragioni. Innanzitutto per proteggere la società dalla pericolosità intrinseca del folle. E poi perché si pensava che a lasciare il folle nella società (e nella famiglia) là dove la sua follia si era generata, questa si confondeva, invece era preferibile isolarla in un ambiente staccato dalla società e neutro: il manicomio appunto.
Ebbene, se pensi che l'80% dei 320 moderni SPDC d'Italia sono a porte chiuse, vuol dire che siamo ancora fermi là, all'ideologia del manicomio ottocentesco.
E poi c'è un altro motivo che ancora giustifica questa primitiva cura per mezzo della detenzione, tuttora in voga. Nell'ottocento si considerava che la follia fosse dovuta a una volontà sconvolta, pervertita, che perciò doveva incontrare una volontà retta, quella del medico, ovviamente, che mediante un processo di lotta, di dominio, avrebbe infine prevalso sulla volontà malata dell'alienato.
Per cui il manicomio ottocentesco è sì un luogo di osservazione, ma è anche un luogo di scontro, perché, sostiene Foucault, è tutta una questione di potere, bisogna dominare il pazzo, ammaestrarlo, raddrizzarlo, esercitare un'ortopedia mentale, o un'ortofrenia. E se ci pensi, è ancora ferma lì la psichiatria, per tornare alla tua domanda sul rapporto tra diagnosi e contenzione. Bisogna sia etichettarlo, il folle, ma pure ammaestrarlo.»

Durante la presentazione del tuo libro hai detto che sta tornando il “fascino discreto del manicomio”. Secondo te si rischiano passi indietro rispetto alla legge Basaglia? E in cosa la 180 non è stata applicata a dovere?
«La legge 180 è una legge unica al mondo. Che secondo me non deve essere né riformata né perfezionata (anche perché i nostri attuali governi la riformerebbero di sicuro in peggio), ma va applicata, perché dov'è applicata funziona. È una legge unica al mondo perché è la sola che elimina il concetto di pericolosità quale criterio per ricoverare le persone con crisi psichiatrica in ospedale. Ed è la sola che abolisce il manicomio. Con questa legge, sostenne Franco Basaglia, abbiamo voluto violentare la società, costringendola a riaccogliere la persona folle nel suo tessuto, ostacolando il processo di espulsione e di reclusione in manicomio. Però, dico io col senno di oggi, la società, e la maggioranza dei tecnici psichiatrici, evidentemente, non si è fatta violentare, e, per lo più, sono riusciti a riprodurre le vecchie logiche e dinamiche manicomiali (etichettamento diagnostico, terapia esclusivamente farmacologica, contenzione al letto, porte chiuse, giro letti, eccetera), in posti come i SPDC che pure erano stati pensati come alternativa al manicomio (il fatto che fossero reparti piccoli, massimo sedici posti, e fossero collocati come tutti gli altri reparti nell'ospedale generale, per esempio). Quindi la risposta è sì, il fascino discreto del manicomio è subdolamente tornato. E seppure i manicomi non esistono più, la manicomialità invece sì.»

E cosa mi dici del trattamento sanitario obbligatorio?
«Il TSO è il nervo scoperto della legge 180: obbligare una persona con disturbo psichico alla cura. È l'atto non libertario di questa legge libertaria; atto delicatissimo, che avrebbe dovuto essere l'ultima ratio, invece ormai i TSO vengono proposti e convalidati in maniera facile e stereotipata, per non perdere tempo a negoziare.»

La figura del riluttante (che, immagino, è almeno in parte autobiografica) incarna un po' il tuo punto di vista: lo psichiatra di un reparto – quindi interno al meccanismo – eppure insofferente, fortemente critico. A volte sembra ostentare una sorta di superiorità sdegnosa nei confronti dei suoi colleghi, eppure colpisce molto anche il suo senso di impotenza. A un certo punto si autodefinisce una pedina “che qualche volta slega e qualche volta sceglie di farsi i fatti suoi”. Insomma, in un certo senso è un rivoluzionario, ma è anche una figura tormentata, con qualche contraddizione.
«Il riluttante è un moderno Sisifo. Uno che, per dirla con le parole di Albert Camus, sente di essere un eroe tragico e assurdo, forse inutile, il cui lavoro gli sembra vano. Non è certo un tecnico tradizionale, di questi tecnici psichiatrici che pur si credono moderni, perché sono cultori delle neuroscienze, dell'epigenetica, del neuro-imaging, della psicofarmacologia, eppure amministrano con disciplina e rigore piccoli SPDC bunker, con porte sempre chiuse, fasce sempre pronte, e dosi generose di farmaci per qualunque crisi; tecnici sostenuti nella loro azione dal pessimismo della ragione. Lui, il riluttante (che sì, mi assomiglia), è un tecnico che agisce invece spinto dall'ottimismo della volontà. Per cui, se lavorasse coi suoi simili, sarebbe felice, un basagliano soddisfatto. Lavorerebbe al meglio. Invece, lavorando all'interno di un'equipe tradizionale, insieme a colleghi con cui si sente accomunato solo dal salario, è un basagliano insoddisfatto, un riluttante, insomma. Eppure, probabilmente, è soprattutto in questo essere solo la sua rivolta. Essere l'elemento dissonante in un'equipe tradizionale (per non dire manicomiale). Forse non sarebbe così rivoluzionario se lavorasse a Trieste.»

Dicevamo che la critica ai tuoi colleghi psichiatri è molto dura. In questo atteggiamento io ho letto anche una critica al potere tout court. Dipingi queste figure di medici e infermieri come detentori di un sapere incerto, che pure hanno un potere enorme nei confronti di individui che possono legare o slegare a piacimento, umiliare, sedare, mettere a tacere. Chi è abituato a un potere di questo tipo, quando nella vita di tutti i giorni se ne trova privato, deve provare una grande frustrazione...
«Infatti. I tecnici tradizionali, paradossalmente, ti parrà strano, lavorano più degli altri. Sono degli stacanovisti. Hanno, alcuni, centinaia di ore in più del dovuto. Io mi sono dato questa spiegazione: perché fuori sono infelici. La loro vita più appagante è là dentro. Nei loro bunker si sentono dei piccoli generali. E alla lunga dà alla testa tutto 'sto potere. Tu hai mai pensato di avere il potere di legare un uomo, impunemente? No? E invece, se ti fossi specializzata in psichiatria, in questi luoghi potevi farlo. Uno ti scoccia, ti provoca, ti risponde male, ti urla, ti sputa, e tu ordini agli infermieri, che magari nemmeno sono d'accordo con te, di legarlo. Non lo devi nemmeno fare tu, non ti devi neppure sporcare le mani, hai gli infermieri, che si occupano del lavoro sporco della contenzione. E dove ti capita, fuori da un posto così, la stessa possibilità? Capisci che, abituati a tanto rispetto, ossequio e disciplina, fuori, nel mondo civile, le ferie, il tempo libero, oppure la vita in famiglia con figli viziati o mogli bisbetiche o mariti strafottenti, diventano più difficili da sopportare. Risulta strano, fuori, affrontare una discussione, o una lite, senza quel potere a disposizione. Come dico nel libro, c'è chi quando non è in servizio si sente veramente inerme, disarmato. E non vede l'ora di tornare al lavoro. Nel suo piccolo impero.»

Il libro è ricchissimo di riferimenti letterari (il mio preferito è la ripresa dell'incipit di Anna Karenina). La letteratura ha per te un ruolo di conforto? Rappresenta una chiave di lettura e interpretazione?
«È vero tutto ciò che hai detto. Probabilmente mi sono curato con la letteratura, e col cinema. Ho lenito spesso la mia rabbia di psichiatra riluttante in questo modo. I turni in SPDC, spesso funestati da scelte altrui non condivise, o da un lavoro routinario e senza scopo, le notti in attesa dell'arrivo di qualche paziente in pronto soccorso, li ho resi sopportabili con la lettura o la visione di film. In effetti, non me n'ero accorto che il libro avesse così tanti riferimenti letterari (Anna Karenina, Il fondamentalista riluttante, Io cammino in fila indiana, Bartebly lo scrivano, Pastorale americana, 2666, Il castello, Il dottor Semmelweis, Dedalus, Moby Dick, Il mito di Sisifo, eccetera), me l'ha fatto notare, ieri, prima dell'intervista con te, Maria Grazia Giannichedda, la storica collaboratrice di Franco Basaglia, che mi ha detto proprio questo: il riluttante si salva dal suo lavoro con la letteratura.»

Sei uno psichiatra prestato alla letteratura o un letterato prestato alla psichiatra?
«Disse Basaglia, nelle sue straordinarie Conferenze brasiliane (a proposito, chiunque volesse avvicinarsi al pensiero di Basaglia dovrebbe leggerle), che al mondo si è o inventori o narratori. Dove i narratori raccontano le invenzioni o le scoperte dei primi. E disse che forse sono importanti entrambi. E disse pure che non dobbiamo essere così nichilisti da pensare di poter scrivere solo bei libri. Io credo che alludesse anche agli antipsichiatri (i Laing, i Cooper, i Szasz), che nonostante i bellissimi libri che hanno scritto non hanno inciso minimamente rispetto alle pratiche manicomiali dei loro paesi. Per cui io, nel mio piccolo, vorrei provare a essere l'uno e l'altro. Continuare a scrivere, però restando in questi piccoli reparti, per provare ad aprirli, a liberarli.»

Nel libro hai deciso di inserire un capitolo dedicato a Franco Mastrogiovanni, il maestro anarchico morto nel reparto di psichiatria dell'Ospedale San Luca di Vallo della Lucania. Sicuramente una vicenda emblematica e agghiacciante, che tu scegli di raccontare in maniera molto narrativa, con un forte coinvolgimento emotivo. Come mai era importante dare spazio a questo personaggio, affidandogli addirittura la conclusione?
«Franco Mastrogiovanni è una figura simbolica, per diversi motivi. Ancor di più per chi, come me, ha una formazione anarchica. Gli anarchici, per quel socialista reazionario che era Cesare Lombroso, erano dei degenerati, al pari dei folli e dei delinquenti. Franco Mastrogiovanni, suo malgrado, è queste tre cose insieme: anarchico, delinquente e folle. Cioè il degenerato perfetto, secondo Lombroso. Franco Mastrogiovanni ha subito un TSO, probabilmente ingiusto, davvero persecutorio, che ha rappresentato l'ultimo anello di una catena persecutoria che subiva già da molti anni; egli, all'inizio, proprio in quanto anarchico, è stato letteralmente esasperato dalle forze dell'ordine e dalla giustizia, dopo è stato sottoposto a un TSO brutale anche per come si svolge (e io lo descrivo), e infine è stato legato, senza alcun motivo (o meglio, non c'è mai un motivo per legare, ma nel suo caso non c'erano neppure i motivi che solitamente vengono addotti: non era agitato, né aggressivo, né violento). Della morte di Franco Mastrogiovanni, se oggi ne stiamo a parlare, è soltanto perché, in quel reparto, erano presenti le telecamere a circuito chiuso che hanno registrato gli ultimi quatto giorni di vita che lui ha trascorso legato al letto, la sua agonia, l'ignavia degli operatori, il suo permanere tranquillo e comunque legato. Molti pazienti, come il maestro di Vallo della Lucania, muoiono legati al letto, perché l'immobilizzazione protratta determina la formazione di trombi ed embolie fatali, ma di solito non lo si viene a sapere che il paziente, nel momento della morte, era legato. Perché, spesso, non c'è proprio traccia scritta della contenzione. E non ci sono le telecamere a documentarlo.
Io spero che il sacrificio di Franco Mastrogiovanni non sia stato vano, e mi auguro che anche grazie a lui, e alla condanna inflitta ai medici di quel reparto, si possa arrivare ad avere una legge che preveda il reato di tortura e che includa nella tortura il legare le persone a un letto d'ospedale, e una legge che renda la contenzione illegale, come illegale è, in Italia, il manicomio.»

È importante, credo, sottolineare una cosa: le critiche che tu muovi al sistema psichiatrico non sono puramente distruttive, esistono degli esempi virtuosi che citi, come Trieste o Merano. È possibile fare altrimenti.
«Sì, è possibile. Disse Basaglia (perdonami se lo nomino un po' troppo spesso, ma è un faro, una bussola, altrimenti mi perderei in questo mondo strano e fuori legge che spesso è la psichiatria), nelle conferenze che tenne in Brasile dopo l'approvazione della legge 180: abbiamo dimostrato che l'impossibile può diventare possibile. Prima era impossibile pensare all'abolizione del manicomio, eppure ci siamo riusciti. Per cui si può fare. A Trieste, dagli anni '70, le fasce le hanno buttate, l'arma che uccide loro non ce l'hanno, fanno in un altro modo. E non solo a Trieste, ma anche in altre realtà italiane, Mantova, Merano, Trento, eccetera. Quindi la mia non è utopia. Si può fare. È dimostrato che si può fare. E allora facciamolo.»

martedì 7 gennaio 2014




 di Gian Piero Fiorillo

Cosa vuol dire fare lo psichiatra oggi, in un servizio ospedaliero romano che assomiglia a moltissimi altri diffusi su tutto il territorio nazionale, per chi non riesce e non vuole rassegnarsi al dominio della psichiatria biologica, securitaria e repressiva? Per chi non accetta che i pazienti vengano regolarmente legati ai letti di contenzione, domati da pesanti chemioterapie, scaricati in cosiddette cliniche e comunità le cui prassi terapeutiche e relazionali ricordano in maniera inquietante quei manicomi che, aboliti per legge, continuano tuttavia ad esistere sotto forme e con nomi diversi?
Cosa vuol dire farlo, lo psichiatra, e dichiararsi tale con ostinazione, pur nella lucida consapevolezza di tutte le contraddizioni che questa professione, situata sul rischioso confine fra medicina e controllo sociale, comporta? Cosa vuol dire scrivere in cartella diagnosi sulla cui consistenza concettuale si nutrono parecchi dubbi, prescrivere farmaci del cui funzionamento si conosce pochissimo e se ne può avere un’idea solo a posteriori, in base agli effetti? O cercare un rapporto umano, un colloquio, con un paziente che si è costretti a lasciare legato per evitare l’esplosione delle dinamiche del reparto, delle quali il poveretto non ha alcuna responsabilità?
Prova a dirlo, utilizzando prevalentemente il registro narrativo, Piero Cipriano nella Fabbrica della cura mentale, diario di uno psichiatra riluttante (Elèuthera 2013), e riesce nell’intento di dare un quadro vivo non solo della sua professione, ma del mondo che ruota intorno alla “malattia mentale”, come oggi viene etichettata qualsiasi espressione di impaccio esistenziale. Fin dal titolo questo libro necessario si colloca nella tradizione detta basagliana, ma senza accontentarsi di ripetere un formulario, piuttosto sottoponendola a un serrato confronto con la realtà.
L’anno che sta per concludersi potrebbe rivelarsi un anno importante per la coscienza critica della psichiatria italiana: le numerose iniziative legate al dibattito sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, alcune pubblicazioni importanti (ad esempio Indagine su un’epidemia – lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci, di Robert Whitaker – Fioriti editore) e soprattutto la rinascita di forme autonome di protagonismo dei pazienti, riaprono una prospettiva che sembrava definitivamente tramontata.

fahrenheit


31 dicembre 2013, intervista con felice cimatti.

leggere per non dimenticare

venerdì 13 dicembre (e non si dica che sono superstizioso), nella splendida biblioteca delle oblate di firenze, terza presentazione de la fabbrica della cura mentale. c’erano due basagliani veramente importanti, paolo tranchina e rocco canosa. paolo tranchina ha parlato di chirone, l’essere dalla doppia natura, cavallo e uomo, il guaritore che conosce le erbe (farmacologo) ma sa pure suonare la lira (musico), e così dovrebbero saper fare i tecnici della mente, che invece si sono consegnati unicamente alla terapia farmacologica, dovrebbero sì avvalersi della conoscenza chimica, ma pure della conoscenza simbolica. rocco canosa invece ha sostenuto una cosa ancora più radicale di quello che ho ribadito io (la contenzione meccanica va abolita), ha detto che i spdc vanno aboliti, perché sono luoghi che creano violenza, si effettui la cura, anche acuta, nei csm aperti nelle 24 ore! alessia de stefano, basagliana della generazione dei trentenni, ha invece raccontato la sua esperienza, simile alla mia, di tecnico no restraint che lavora in un servizio restraint. invece cristina canzio, psicanalista argentina, fuori presentazione, mi ha fatto un complimento molto bello, che non c’entra niente col tema del libro ma con lo stile, ha detto che somiglia a quello di gabriel garcia marquez, di ernesto sabato e di julio cortazar.