Giuseppe Ceretti - Il Sole 24 Ore
Hai voglia di dire che i manicomi non ci sono più, il povero
Basaglia si sarà rivoltato un milione di volte nella tomba. Parola di
uno psichiatra riluttante, al secolo Piero Cipriano, che ha lavorato in
vari dipartimenti di salute mentale e da alcuni anni lavora in una SPDC
di Roma. Quattro lettere che stanno per Servizi Psichiatrici di Diagnosi
e Cura, reparti collocati nell'ospedale generale. Qui sono ricoverati
gli affetti da mal mentale dopo che nel 1978 la legge 180 ha abolito i
manicomi.
Cipriano per età (è nato nel 1968) non ha conosciuto quei
campi di concentramento del malato mentale che erano i manicomi, ma
conosce assai bene, per lavorarci giorno e notte, gli SPDC : "Mi
ricordano una fabbrica" dice e lì per lì pare un grande cambiamento e in
positivo. E certo lo è, almeno in apparenza-Ma Cipriano non a caso è riluttante, ovvero, come ci dice il
vocabolario, "uno scarsamente disposto a cedere, concedere,
acconsentire".
Piuttosto la sua esperienza lo convince che in quei luoghi
sta rinascendo, sotto altre forme, una rinnovata cultura manicomiale. Il
malato è una macchina biologica rotta che va aggiustata non con le
parole, ma con il farmaco e se il farmaco non basta ci sono le fasce o
le terapie elettriche. E le cure tranquille? Nel silenzio costoso di
studi privati.
Una convinzione che è maturata dall'esperienza sul campo e
si è tradotta in questo diario di reparto dentro "la fabbrica della cura
mentale". Cipriano, lo si avverte sin dalle prime righe, è uomo dalla
notevole temperatura interiore. A dispetto della conclamata volontà di
darsi a più proficue peregrinazioni nel mondo, nel suo lavoro ci mette
passione, competenza e sdegno, anche dietro gli apparenti segni di
cinismo: "Che ci faccio qui?".
L'incipit del diario ha l'effetto di un pugno nello stomaco
("prendila tienila legala" è l'eloquente titolo di una notte da incubo)
seguito dal perfido resoconto del riluttante io narrante alle prese con i
colleghi: il sarcastico, la fredda, la disillusa, la suorina, il
fatalista, una galleria di personaggi che girano per i reparti in coda
al grande timoniere: "Giro finito. Fino al giorno dopo i pazienti
ingoieranno pasticche, cibo, nicotina e televisione".
Piero Cipriano ci avverte che in questa fabbrica il dogma
della reclusione della follia, con il conseguente abuso dei farmaci, è
alimentato dagli interessi di multinazionali che hanno creato schiere di
sostenitori pronti a dimostrare ch in Italia i manicomi non sono stati
chiusi "grazie ai neurolettici tipici e ora atipici che avrebbero reso
più docili i malati". I farmaci, dice Cipriano, spesso "servono a sedare
più che il malato l'ansia dello psichiatra".
C'è poi la questione che più d'ogni altra "fa venire il
sangue amaro" all'autore: mai nei libri di psichiatria si parla di
legare la gente, mai se ne parla, negli anni di specializzazione: "Ma
allora - si chiede - perché è una pratica tanto diffusa, che coinvolge
l'80% degli SPDC d'Italia? E' una questione di etica e di cultura: altro
che reclamare più operatori, occorre cambiar loro la testa".
La testa di Cipriano è ostinata, cocciuta, piena di sogni ma
bastano le poche righe del capitolo di una notte al pronto soccorso per
capire di che pasta sono fatti questi sogni. Forse il meglio di questa
testimonianza è in ciò che non vi abbiamo anticipato, nelle tracce di
romanzo, di saggio, di reportage, di manuale di sopravvivenza.
Non a
caso Cipriano chiede aiuto alle parole di Goethe: "Ciò che qui ho
narrato è realmente accaduto, ma niente è accaduto come qui ho narrato".
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