Dario Musso non è un anarchico come Franco
Mastrogiovanni, non ha questa filosofia politica conficcata nel cervello ma è a
suo modo un ribelle, un contestatore, un complottista direbbero quei pappagalli
che oggi mettono a tacere qualunque idea divergente della società, della
politica, della storia, attribuendo a piene mani l’etichetta di complottismo, Dario
è un rapper è una persona drammatica e teatrale, se volessimo psichiatrizzarlo
facendo diagnosi dai video che ha disseminato nel medium digitale potremmo dire
un istrionico, ma non lo dico, sicuramente, a naso, quell’iperestesia,
quell’eccesso di onestà che pure caratterizzava l’anarchico Mastrogiovanni,
affliggeva pure il rapper di Ravanusa, che continuava a esortare con una
generosità da martire i suoi concittadini, fratelli, ripete nei vari video,
svegliatevi, ma quale lockdown, ma quale virus, ma quale mascherina, ma uscite
ma bruciate il danaro ma smettetela di fare i servi.
Eppure qualche somiglianza c’è tra l’anarchismo
del maestro di Vallo della Lucania e la ribellione generosa del rapper di
Ravanusa. Sono due contestatori, due disobbedienti, in misura diversa, generazioni
diverse, che muovono forse anche da sponde ideologiche diverse, destra e
sinistra potremmo dire per semplificare, oppure no, cultura alta cultura bassa,
ma nemmeno.
Il denominatore comune è che entrambi talvolta
eccedevano, l’umore, possiamo dare la colpa all’umore, il gran colpevole di
quest’epoca (siamo o non siamo la società della depressione e del suo rovescio
l’euforia?), che in certi esseri umani non riesce a stare in equilibrio ma a
volte si esalta e a volte si sconforta. E così facendo si porta appresso il
pensiero, che si megalomanizza in un caso o si fa apocalittico nell’altro. E l’equilibrio
psichico viene meno. Mastrogiovanni aveva, prima dell’ultimo, subito altri ricoveri.
Dario, a quanto pare, uno. Ma molti anni prima.
Quel che è certo è che entrambi subiscono un TSO spettacolare.
Nel senso di società dello spettacolo proprio. Alla Guy Debord, dico. Quei TSO che
non passano inosservati perché vengono filmati, registrati. Mastrogiovanni, fine
giugno 2009, era stato multato dai vigili pare per eccesso di velocità nel centro
storico di Acciaroli. Aveva fumato una canna, sembra. Un vigile, aveva fatto la
diagnosi. Sguardo perso nel vuoto, scrive nel verbale. Il sindaco dà il via
alla caccia all’uomo. Il giorno dopo: l’inseguimento, la fuga, in mare
addirittura, a cantare si dice Addio Lugano bella! Lo vedete che pure
Mastrogiovanni era un istrione? Una motovedetta informa i bagnanti che sono
impegnati in una caccia all’uomo, dodici carabinieri, c’è una preda da braccare
davanti ai suoi stessi alunni. Vienne atterrato in spiaggia. Siringato in
spiaggia. Portato in ospedale. Sedato. Legato. Morto. Solo quelle telecamere a
circuito chiuso di cui tutti si erano scordati ce lo restituiscono, il Cristo
altissimo morto che diventa film, 87 ore, di Costanza Quatriglio, e diventa
canzoni, 82 ore, di Pierpaolo Capovilla, Ballata per Mastrogiovanni
di Alessio Lega.
“Possiate ricordarvene domani mattina, all’ora
della visita, quando senza alcun lessico tenterete di conversare con questi
uomini, nei confronti dei quali, riconoscetelo, non avete altra superiorità che
la forza”. Queste parole, scritte da Antonin Artaud quasi un secolo fa, scritte
quando ancora non immaginava che ci sarebbe finito, nel manicomio di Rodez, sembrano
accompagnare le immagini del film di Costanza Quatriglio dove si raccontano gli
ultimi quattro giorni di agonia, tortura, cristologica passione del maestro
anarchico. Ma sono parole che stanno benissimo anche addosso ai filmati che non
abbiamo, ma possiamo immaginare, del ricovero di Dario.
Non ci sono immagini del ricovero di Dario perché
nel SPDC di Canicattì non ci sono telecamere come nel SPDC dell’ospedale di
Vallo della Lucania, telecamere di sorveglianza, che registrano i fatti. Si
vede una persona, che entra da uomo vivo, un uomo altissimo, il maestro più
alto del mondo lo chiamavano i suoi scolari, tranquillo, saluta, stringe la
mano degli infermieri, si alimenta, si fa siringare, infine si addormenta. E
quando è orizzontale, in posizione clinica, ridotto a corpo, corpo che dorme,
viene legato al letto.
I medici clinici amano mettere a corpo clinico, a
corpo morto, i degenti, i malati. E’ un debito che hanno contratto, i medici,
tempo fa, verso l’anatomia patologica che sapeva (e sa) interrogare il corpo
morto per mezzo del coltello, coltello che riduce in brani e vetrini. E dice
qual è il male. L’ospedale è corpo morto. Diviso anatomicamente in una serie di
organi, dalla testa al torace alla pancia ai genitali alle ossa. Eppure, non ci
sarebbe bisogno di mettere un sofferente di testa a corpo morto. Pensateci. Una
gamba rotta, ha senso mettere a letto la persona col femore rotto. Un cuore in
affanno, ha senso mettere a letto a corpo morto un cardiopatico. Pure un
epatopatico o un dializzato o un epilettico ha senso mettere a corpo clinico.
Ma un euforico no. Un depresso no. Un allucinato no. Non ha senso
immobilizzarlo a letto legandolo mani e piedi e agonizzandolo coi farmaci e
chiudendo le porte di quel reparto l’unico chiuso dell’ospedale libero, e
generale, e civile.
I medici non lo sanno neppure loro perché
continuano a dire, paternamente al malato, si metta a letto. E al malato se è riluttante
alla posizione clinica dicono, si leghi quell’uomo al letto.
Il film 87 ore (vedetelo se non l’avete
ancora fatto) racconta l’uccisione di Mastrogiovanni trasformato in homo sacer, in colui che, suggerisce
Agamben (e lo so che adesso Agamben non va più di moda, troppo inviso a destra
e sinistra), è una vita uccidibile, perché avendo trasgredito può essere prima
escluso dalla società e dopo soppresso. Sotto questa luce i malati psichiatrici
oggi sono come gli ebrei nei campi di concentramento, o gli immigrati
clandestini, esseri umani ai margini della società, già morti in vita, homines sacri, uccidibili senza troppi
scrupoli etici.
Scrive Franco Basaglia, ne L’istituzione negata, che in manicomio entra un corpo, già
indebolito dalla malattia. Ma quando penetra in quel luogo dove “prima di
uscire vengono controllate serrature e malati”, dove il corpo del malato
diventa suppellettile al pari di una serratura o di una porta, ecco che il suo
corpo smette di essere soggetto (corpo che sono, leib, per usare le parole di Husserl) e diviene oggetto (körper, corpo che ho). E inizia così,
spogliato, disumanizzato, la sua carriera
morale di malato mentale.
Ma ciò che il film su Mastrogiovanni,
inesorabile, ai limiti dell’inguardabile, ci racconta, è che il manicomio (o i
suoi succedanei, come queste piccole istituzioni della violenza che molti
reparti psichiatrici ospedalieri d’Italia sono diventati) disumanizza non solo
i malati ma, seppure in modo diverso, anche il corpo curante.
L’infermiere che nel film 87 ore (ripeto,
cercatelo, guardatelo) dice che non aveva bisogno di andare nella stanza di
Mastrogiovanni, perché lo controllava bene dai monitor delle telecamere, è un
essere umano che, almeno quando vive in quel reparto, si è disumanizzato, fatto
macchina pure lui, diventato oggetto, suppellettile, chiave, serratura,
videocamera egli stesso.
Oppure il medico che, a Grazia Serra, la nipote
del maestro, che vuole visitarlo, le risponde: non c’è bisogno, perché ora è
sereno (sereno!) e deve starsene tranquillo per altri dieci giorni a fare
questa terapia (questa terapia!), è quanto di più lontano ci possa essere non
solo da un medico etico, ma perfino da un essere umano decente.
Per questo 87
ore sembra essere non un documentario ma un film dell’orrore (e
ciononostante va visto), attraversato da tanti robot, zombie, sia i poveri
malati annichiliti dai farmaci (sono tutti allettati i malati di questo reparto
spettrale, chi legato dalle fasce chi legato dai farmaci, e l’unico che, nei
primi minuti di ricovero deambulava, era proprio Mastrogiovanni, troppo vitale
dunque, e subito ridotto anch’egli a una dimensione di orizzontalità
cadaverica), sia i curanti (curanti!) che si aggirano, con movimenti meccanici,
in questo labirinto kafkiano, in questa fortezza chiusa, inespugnabile, che è
il SPDC.
“Ho pensato, signor giudice, di liberarlo, se
dipendeva da me l’avrei fatto”, così si giustifica un infermiere. E sembra di
sentire di nuovo Adolf Eichmann nel processo di Gerusalemme che si difende, che
si giustifica: eravamo in guerra, avevo degli ordini superiori, non dipendeva
da me. Eccolo qui, ancora vivo, quel male non eccezionale ma banale, perfino
normale, di chi uccide un uomo e nemmeno si rende conto della sua
responsabilità.
Dario Musso non è morto, per fortuna, a
differenza di Mastrogiovanni. Forse perché la spettacolarizzazione che il
martire Mastrogiovanni fece suo malgrado del suo corpo, della sua nuda morte, è
servita (un poco) da lezione? Ah quanto vorremmo credere che il caso
Mastrogiovanni sia servito a qualcosa. O che sia servito il caso di
Giuseppe Casu il venditore ambulante che nel 2006 lancia una bottiglietta di
acqua minerale come gesto di protesta alla sospensione della sua licenza di
vendere e viene sottoposto a TSO e muore e sparisce perfino il corpo, lì nei
bassifondi dove si fanno le autopsie. O il caso di Andrea Soldi pure lui
immobilizzato finché muore vicino alla sua panchina di Torino. O quello di
Massimiliano Malzone a Salerno. O, l’estate scorsa, la morte di Elena Casetto,
una ragazzina, che brucia nel suo letto di contenzione, nel SPDC di Bergamo.
Nessuna lezione invece. La psichiatria hard tira
dritta per la sua strada. Quella sua strada che viene dal manicomio e fa un
circolo tortuoso e come un Uroboro ritorna in bocca al manicomio. La
psichiatria ha un tenace legame, una sorellanza proprio, con lo spirito del
manicomio, con le prassi del manicomio, la gran parte degli psichiatri (a meno
che non abbiano fatto su di sé un lavoro di decostruzione dall’imprinting con
cui vengono fabbricati: diagnosi-farmaco-fasce) pur non avendo conosciuto
l’edificio manicomio, l’ideologia manicomio ce l’hanno cablata nella scatola
cranica.
Le immagini del TSO brutale, selvaggio, maldestro
di Dario, hanno fatto il giro d’Italia. Il sindaco di Ravanusa e i sanitari del
SPDC di Canicattì sono stati sommersi di telefonate, mail, tra queste la
richiesta di spiegazioni da parte di Gisella Trincas dell’UNASAM (associazione
italiana dei famigliari di persone con disturbo psichico) o la lettera del
garante dei detenuti. Questa pressione mediatica ha dato luogo, probabilmente,
alla sua rapida dimissione, altrettanto selvaggia.
Così come nel ricovero di Mastrogiovanni, anche nella
cattura di Dario Musso le immagini sono senza appello. Dario esce dall’auto, è
tranquillo. Viene circondato da carabinieri polizia municipale e tre sanitari
in camice. Uno dei quali si arma non di parola, colloquio, relazione, ma di una
siringa caricata e puntata verso il gluteo di Dario, da attraversare e
inoculare attraverso i pantaloni e senza disinfezione. In questi mesi di enfasi
immunitaria, dove tutto è disinfettato, l’iniezione fatta senza alcuna
profilassi, poi, è davvero paradossale.
Dario, come Mastrogiovanni in spiaggia davanti ai
suoi alunni, viene atterrato sull’asfalto e siringato. Dov’era lo stato di
necessità (articolo 54 del Codice Penale) che giustifica questa urgenza di
sedarlo lì, subito, sull’asfalto? Dov’era la necessità di legittima difesa
(articolo 52 del Codice Penale) che giustificava la sua presa e l’atterraggio?
Due dottoresse propongono e convalidano il TSO,
il sindaco in giornata, 2 maggio, emette l’ordinanza. Dario viene ricoverato
presso il SPDC dell’ospedale di Canicattì. Ma voglio dirlo chiaro. Lo scandalo
non è il TSO. Il TSO esiste, è uno strumento, un dispositivo per curare una
persona che ha delle alterazioni psichiche, di cui non è consapevole e dunque
ricusa le cure, quando non ci sono altre condizioni per intervenire se non in
ambito ospedaliero. Il TSO è una tutela. Ma deve essere extrema ratio. Arrivarci
solo quando ogni negoziazione, per ottenere l’adesione alle cure, è fallita.
A Dario è stato chiesto, proposto, un
trattamento? E quando è avvenuta la negoziazione terapeutica? Lì, sull’asfalto,
quando Dario è con la faccia a terra? La prima valutazione, da parte del medico
proponente (la sua dottoressa di medicina generale), è stata fatta in
contumacia. Basandosi probabilmente sulla visione dei video dei giorni precedenti
(video inquietanti, certo, ma non bastano per proporre un TSO), e facendo una
telefonata a casa di Dario, dove parla con sua madre (peraltro nemmeno
dichiarandosi come il suo medico di base, ma perché nascondersi?), ma non con
Dario. E basta questo tentativo per innescare la proposta di TSO? E il medico
psichiatra che convalida, a quanto pare, è una dei tre sanitari intervenuti per
strada. Pure lì, non sembra che Dario abbia avuto l’opportunità di parlare con
un medico in un setting decente, privato, rispettoso della sua dignità. Il setting è stato la strada. O meglio,
l’asfalto.
Dopo la cattura viene condotto in SPDC a
Canicattì. Non abbiamo telecamere che ci raccontino quei giorni. Non ci sono
telecamere come a Vallo della Lucania ma ci sono le registrazioni audio di suo
fratello, che nonostante sia un avvocato, per quattro giorni cerca di vederlo, o
almeno parlare con lui per telefono, invano.
La dottoressa al telefono si nega. Si schermisce
in un modo, che sembra ancora la banalità del male in azione. Ora dorme, dice
una volta. Non abbiamo il cordless, dice un’altra volta. Ora ho un’urgenza,
devo fare due ricoveri. Ma a chi la racconti, collega? (e mentre scrivo la
parola collega mi viene in mente la poesia di un poeta trevigiano che
dice Io non sono collega di nessuno). Uno psichiatra decente non si difende
dal famigliare, anzi lo cerca, parla con il famigliare, fa entrare il
famigliare a visitare la persona ricoverata. Soprattutto se questa persona è
legata, sedata, cateterizzata.
C’è una straordinaria somiglianza di gesti, di
prassi, di omissioni, di malpratica, di assenza di deontologia di
professionalità di etica tra il modo con cui lo psichiatra impedisce, nel 2009,
alla nipote di Mastrogiovanni di vedere suo zio legato (dorme, riposa) e il
modo con cui la psichiatra impedisce, nel 2020, al fratello di Musso di vedere
suo fratello legato (dorme, riposa). E’ la banalità della peggiore psichiatria
che Basaglia e i basagliani pensavano di aver seppellito quarantadue anni fa
insieme ai manicomi invece è qui, più perniciosa che mai.
Perché Dario viene tenuto legato e sedato per
tutto il tempo? (viene slegato dopo cinque giorni) E’ una domanda retorica la
mia perché io lo so, che viene facile legare e difficile slegare. Slegare una
persona che è stata legata è un momento perfino più difficile (e carico di
responsabilità) della decisione di legarlo. In questi anni mi sono preso, molte
volte, la responsabilità di slegare, quando la contenzione durava oltremisura. Perché
non sto scrivendo da una torre d’avorio, io. Non scrivo da un SPDC no restraint
come ce ne sono sempre meno in Italia. Scrivo da dentro un SPDC restraint che
in questi ultimi dieci anni ha provato (tra alti e bassi) a ridurre
drammaticamente sia il numero sia la durata delle contenzioni. Ma il mio ruolo
critico nel SPDC dove lavoro non mi impedisce di esercitarlo anche rispetto a
SPDC d’Italia dove la contenzione sembra essere la regola. A Vallo della
Lucania, le immagini raccontano, erano tutti legati o sedati. Non vi erano
ricoverati verticali. Dominava l’orizzontalità. Il corpo morto di cui dicevo
prima.
Appena entra in reparto Dario viene legato ai
quattro arti più (lo racconta nell’intervista alle Iene vedi qui) una fascia sul torace. Dunque,
se fai un TSO tanto drammatico, e tieni legata una persona per cinque giorni, è
senz’altro per un disturbo molto grave. Eppure Dario viene dimesso, dopo una
settimana, di cui cinque giorni legato e sedato, con una non-diagnosi, che
testimonia l’incoerenza dei medici che
hanno gestito il suo ricovero.
Perché non è stato un TSO. Non è stato un
Trattamento Sanitario Obbligatorio, questa cattura di sette giorni senza un
prima (negoziazione) e senza un dopo (presa in carico da parte del Centro di
Salute Mentale) è stato un Trattenimento Sanitario Obbligatorio. Che non
ha convinto certo Dario Musso o la sua famiglia ad affidarsi a quel servizio di
salute mentale.
Purtroppo, non basta essersi liberati del
manicomio, quarantadue anni fa, con una splendida legge (180) che si sta
purtroppo svuotando progressivamente dei suoi contenuti. I suoi contenuti
rivoluzionari erano che il manicomio, in quanto anti-terapeutico, andava
distrutto, abolito, perché la cura non è la deportazione in luoghi-a-parte, ma è
restare nella comunità, grazie a una rete di servizi, capaci di intercettare
non solo la necessità di cura farmacologica o di colloqui, ma i bisogni di
abitare, di lavorare, di socializzare.
Ecco che alcuni servizi di salute mentale questa
presa in cura non la sanno fare, il Centro di Salute Mentale che avrebbe dovuto
occuparsi di Dario, a giudicare da come ha gestito questo suo momento di
disagio, sembra un guscio vuoto, un contenitore senza contenuto, ecco perché in
certi territori si opera inseguendo l’urgenza,
in Sicilia si fanno 30 TSO ogni 100.000 abitanti, un numero
stratosferico, dieci volte maggiore del Friuli, dove se ne fanno 3 ogni 100.000
abitanti. Perché se non sai fare la presa in cura, non ti rimane che
fare la presa, e basta.
Il numero di TSO non è mai un dato casuale, indica
la qualità di un servizio di salute mentale. Lo stesso vale per la prassi di
legare le persone. Se fai tanti TSO, se ricoveri sempre persone in grave crisi,
obbligandole, più facilmente nel corso del ricovero adoperi le fasce. Molti TSO
e molte contenzioni sono eventi sentinella che raccontano quanto un servizio di
salute mentale sia in sofferenza e si affidi alle prassi manicomiali.
Il manicomio si reggeva su tre cardini: la
reclusione l’isolamento e il dominio. Il trattenimento di Dario Musso,
questo spettacolare TSO ai tempi del lockdown, ci ha riproposto il manicomio, e
ci ha riproposto la necessità della reclusione dell’isolamento e del dominio proprio
nei mesi in cui, un’intera nazione (sessanta milioni di persone), ha vissuto
sulla sua pelle il fascino discreto del manicomio. Perché questo è accaduto: per due mesi,
un’intera nazione, è diventata manicomio. E il rapper di Ravanusa, che con
troppa enfasi, si ribellava a questo manicomio, è stato portato in manicomio.
(scritto già pubblicato su Charta Sporca: http://www.chartasporca.it/il-fascino-discreto-del-trattenimento-sanitario-obbligatorio/)